venerdì 31 ottobre 2014

Cronache di Surakhis 63: Contratti a tempo determinato

Da quando si era completata la rivoluzione sociale, su Surakhis tutto era cambiato. Paularius in qualità di presidente dei Padraos de mineiras, l'unico sindacato imprenditoriale del pianeta, aveva più volte tentato, ma senza successo, di ottenere dalla Lega degli schiavi la definitiva cancellazione del posto fisso, una particolare obbligazione che ogni proprietario aveva verso chi lavorava per lui, un relitto di un passato che si perdeva nella notte dei tempi e che nessuno era riuscito a modificare per millenni, nonostante alti e bassi provocati da lotte sanguinose e senza quartiere che avevano radicalizzato le opposte fazioni. Il capo degli schiavi, un tale Terrini che aveva fatto sfilare per le strade di Novigorad schiere di ex schiavi, quelli che non avevano più la forza di scendere in miniera e che erano ormai gli unici che gli davano retta, aveva combattuto duro, ma alla fine era riuscito ad ottenere il posto fisso per tutti. Era sancito nella costituzione ormai, ogni schiavo aveva diritto al suo posto in miniera a cui veniva incatenato già quando era piccolo e da cui veniva sciolto solo al momento in cui le forze gli venivano meno. Questa era stata un po' una furbata degli imprenditori, che prima dovevano farsi carico delle spese di smaltimento dei corpi, quando i lavoratori venivano tenuti incatenati fino alla morte, ma la cosa era passata come un vittoria morale dei lavoratori. Tuttavia, la globalizzazione aveva fatto le sue vittime e le imprese non ce la facevano più a sostenere i pesanti costi del lavoro, anche se questi consistevano solo più nella zuppa di minestra che veniva consegnata ogni giorno e dico ogni giorno puntualmente ad ogni schiavo. 

Alcuni imprenditori illuminati avevano creato persino il cosiddetto sostegno familiare e una volta alla settimana (di dieci giorni col nuovo calendario lavorativo virtuale) ne concedevano una mestolata anche ai congiunti in primo grado, ma erano pochissimi e anche piuttosto criticati in seno all'associazione. Ormai, se si voleva rimanere sul mercato, bisognava tagliare i costi senza stare troppo a guardare, anche se, a dire il vero il fondo del barile era stato raschiato. E' vero che i diritti inalienabili, come il sonno erano stati lasciati, anche se leggermente ridotti, ma da tempo lo schiavo aveva diritto a cinque ore di sonno, poi bastavano gli stimolatori elettrici a mantenerlo sveglio se si appisolava di tanto in tanto. La loro applicazione era stata una conquista proprio dello stesso Paularius che ci teneva a non avere poltroni tra i piedi. Terrini aveva ceduto in cambio della limitazione dello ius trombandi alla prima figlia del lavoratore, limitandolo solo alla voglia o meno dell'imprenditore. La scodella di zuppa invece poteva essere svuotata durante il lavoro, tanto il trivellatore poteva essere tenuto anche con una mano sola e poi agli Aracnoidi di Betelguese ne rimanevano addirittura sette di braccia, per cui non era mai stato un problema e tra l'altro anche se venivano loro mozzate negli incidenti di miniera o per le punizioni periodiche, per ricordare loro chi era che comandava, ricrescevano in fretta. Quindi l'unico punto su cui si poteva agire era la scodella di zuppa. 

Sulla qualità non c'era più niente da guadagnare, ormai si utilizzavano solo più i roditori di miniera reperiti durante lo scavo e la spezia di insaporimento era fornita dagli escrementi dei lavoratori stessi, cosa che tra l'altro aveva migliorato la resistenza alle malattie. Dopo una prima moria iniziale infatti, i lavoratori erano per così dire autovaccinati, ma non c'era niente da fare, il rancio quotidiano rappresentava comunque l'intero costo del lavoro e lì in qualche modo si doveva agire. La proposta era nell'aria da tempo, ma quando Paularius al tavolo della trattativa cominciò la sua arringa finale, il gruppo dei sindacalisti capeggiati da Terrini cominciò a mugugnare. I Sardar, con qualche acconcia scarica di elettrostimolazione, di cui erano stati occhiutamente dotati i loro scranni, li calmarono subito, anche se si dovette intervenire manualmente con un esagitato Piglianculo di Rigel, che voleva a tutti i costi prendere la parola. Lo diedero subito, per così dire in mano ad un Macropenico tenuto da giorni a stecchetto che lo sistemò per le feste come si meritava. Il malcapitato ridotto a più miti consigli, rimase poi in piedi in fondo alla sala, anche per non macchiare di sangue il sedile. Paularius esordì quindi con un richiamo alla pace sociale ed alla bellezza dei bei tempi antichi, quando si poteva concedere tutto ai lavoratori, lui stesso ricordava quando non esisteva ancora la fustigazione preventiva e le frustate venivano assegnate solo alla domenica, l'abolizione della quale le aveva poi suddivise sull'arco degli altri giorni. Tutte conquiste sociali per cui gli imprenditori si erano a lungo battuti fino ad ottenere finalmente la liberazione dal salario, con l'istituzione benedetta dal culto sacerdotale, della sacrosanta gratuità del lavoro. 

Una grande conquista, soprattutto a livello morale che aveva liberato questo aspetto umano, da una odiosa monetizzazione che inquinava i rapporti sociali, sporcando la bellezza etica dell'offrire la propria opera al proprio datore di lavoro che, senza nulla chiedere in cambio, benignamente te lo concedeva. Ma ora i tempi erano cambiati e questo rapporto, questo vincolo assoluto, che legava lo schiavo al padrone dal momento della sua entrata in miniera fino alla sua uscita, quando non era più in grado di scavare o quando malauguratamente doveva essere ceduto ad una banca degli organi, non aveva più la possibilità di reggere. Il costo umano e materiale della scodella di zuppa era diventato insostenibile e di questo passo le miniere avrebbero chiuso e gli schiavi non avrebbero potuto più svolgere la sacralità del loro compito, rimanendo definitivamente senza lavoro, senza scopo quindi, carne da predatori di fegati e di polmoni, quei pochi che li avevano ancora utilizzabili. Era finito il tempo del lavoro a tempo indeterminato, cominciava quello del contratto a termine. Ogni giorno lo schiavo sarebbe stato reso (virtualmente) libero di mangiarsi la zuppa o quello che più desiderava, libertà assoluta in questo, comunque a sue spese; i minuti impiegati per ingurgitarla decurtati delle cinque ore di sonno e quindi subito riassunto per la giornata successiva. Il discorso terminò tra un'ovazione rumorosa da parte di tutti i Padraos presenti, mentre i Sardar ruotavano velocemente i bastoni storditori per sgomberare l'aula. Terrini cercò di chiedere almeno che ai rappresentanti sindacali fosse consentita una razione padronale al mese, ma venne portato via a braccia tra gli sberleffi della folla assiepata all'uscita. Le tre lune di Surakhis erano ormai alte oltre le nuvole, un poco velate dalla nebbiolina marrone dei fumi delle centrali a merda che sbuffavano lontane nel cielo. Si poteva cominciare una nuova era. 



Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Sansone
Civiltà perdute.

giovedì 30 ottobre 2014

Facendo la valigia

Immagine dal web

Abbiate pazienza se in questi giorni sono un po' troppo frettoloso e ve le tiro su asciutte. Sto preparando la valigia e avendo procrastinato tutto all'ultimo momento, come ogni buon cattivo studente, sono un po' preso per la gola, devo fare ancora un sacco di cose improcrastinabili, inclusi i giri cimiteriale di prammatica. Per questi motivi non starò come di consueto a buttar giù qualcuno dei miei soliti lacrimevoli pezzi di nostalgia del buon tempo andato che tanto amano i miei lettori coetanei, ma tanto si sa che sono destinati a poco a poco a diminuire anche loro per estinzione naturale e fisiologica. Piuttosto mi devo concentrare sul prossimo mesetto che trascorrerò lontano da qui, nella calda e spero non troppo piovosa Birmania, come io mi ostino pervicacemente a chiamarla, nonostante i richiami dei meglio informati. Avete notato come tutto cambia nome, forse per togliere la patina di vecchio e superato, quasi che un non vedente vedesse meglio di un cieco o un diversamente abile (ma mi sembra già sorpassata anche questa locuzione) camminasse meglio. 

E' un po' come in Cina, dove essendo giudicate troppo volgari alcune parole, si è cominciato a sostituirle con altre o con frasi allusive giudicate meno dirette e quindi più accettabili alle orecchie sensibili, salvo poi diventare a loro volta troppo volgari ed essere rimpiazzate di nuovo e così via all'infinito in una rincorsa senza fine al correct. Mah, alla fine dare a chi se lo merita dello stronzo invece che dell'uovo di tartaruga,  come si usa a Pechino, non è poi un gran male, almeno ti sfoghi. La partenza comunque si avvicina e io sono, come ogni volta di più, impreparato. Non ho letto nulla di quanto mi prefiggevo di leggere prima, non ho studiato a fondo l'itinerario e via cantando. Vuol dire che subirò un maggiore impatto emotivo, cogliendo situazioni inaspettate e meno prevedibili. Diciamo che mi porterò dietro un fardello di preconcetti minore del solito ed alla fine questo potrebbe essere anche una cosa positiva. Ad majora.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

martedì 28 ottobre 2014

Il salone del dis-Gusto

Sto diventando sempre più insofferente e micranioso. Una volta, quando sentivo cose irritanti, palesemente false o anche soltanto volte a prendersi gioco di me, facevo spallucce, che ognuno dicesse quello che gli pareva meglio. Adesso, sarà l'età e l'accidia tipica dell'anziano, un mix funesto e pericolosissimo, quando comincio a sentire certe sagre di scemenze, paludate da verità divine volte a salvare l'umanità, sento subito le farfalle nello stomaco e vorrei fare qualcosa, anche se poi alla fine finisco solo per cambiare canale. Domenica ad esempio, Linea Verde, il programma dedicato all'"agricoltura" di Rai 1, era in diretta dal salone del gusto di Torino, la kermesse gastrofighettara, che di anno in anno sempre di più attira folle di paganti (20 € d'ingresso tanto per capirci) bramosi di provare mitiche sensazioni degustando rarità alimentari di tutto il mondo. Ora, se questo fosse il senso della questione, non ci sarebbe assolutamente nulla da criticare. Quante sono le manifestazioni che propongono a chi se lo può permettere, il raro, il bello, il prezioso e gli emblemi del lusso destinato a una élite mondiale, campo, uno dei pochi rimasti sfortunatamente, in cui l'Italia è ammirata maestra e quindi fonte benedetta di business redditizio per le nostre casse esangui? Moltissime, dalle mostre del gioiello a quelle del lusso assoluto, delle auto top di gamma, all'alta moda e chi più ne ha più ne metta e parliamoci chiaro ce ne fossero ancora di più. Quello che invece è terribile in questa fiera è che passa un messaggio che, oltre che palesemente falso, fuorviante e interessato, è anche assolutamente pericoloso. 

Qui si vuol far intendere che la sagra del presidio di eccellenza, la santificazione della piccola produzione di nicchia e dell'altissima qualità, posto naturalmente che sia reale e non artefattamente costruita a tavolino, sia agricoltura vera, anzi l'unica possibile e capace di sfamare l'umanità, ma non solo, anche di risolvere ogni problema salutistico. Si è rispolverato poi l'ormai defunto mito del buon selvaggio che protegge con i suoi comportamenti di saggezza antica la terra madre, salvandola dall'aggressione spietata ed insensata della moderna ingordigia delle perfide multinazionali, assurte ormai all'icona del vero nemico da combattere, ignorando che i comportamenti agricoli dei popoli meno sviluppati sono e sono sempre stati i più nefasti distruttori di ogni ecosistema naturale, a partire dal famigerato metodo di coltivazione del taglia e brucia e dalle totali deforestazioni che hanno devastato la Terra, ben di più che qualunque impresa di predatori di legname. Il buon selvaggio se ne catafotte nella maniera più assoluta della natura e della madre terra, cerca solo di sopravvivere alla meno peggio avendo a disposizione solo una agricoltura primitiva che non riesce ad andare al di là della sussistenza e non può fare altro, quindi non gli si può certo addossare colpe morali, ma da qui a santificarlo come conoscitore delle verità assolute e salvatore della natura, è una bufala pazzesca. Da questo nascono poi altri assunti esiziali e tra tutti quello che solo questo tipo di "agricoltura" sia quella in grado di sfamare il mondo del futuro nel modo migliore, trascurando il fatto che in pochi decenni sarà necessaria più del doppio della produzione attuale e che chi deve riempire la pancia non è certo minimamente interessato alle sfumature di aroma del tartufo bianco o del sentore di cenere di uno yogurth. 

Si prendono come basi le bufale raccontate da Panzana Shiva, tutte ampiamente smentite, che su questo campa egregiamente o di altri mistificatori sedicenti scienziati per far loro produrre a pagamento false ricerche immediatamente sbugiardate dalla comunità scientifica internazionale, che però rimangono sul web a imperitura memoria in modo che i creduloni le possano citare all'infinito, fregandosene della verità. Si costruisce un castello puntellato su ovvietà (l'importanza della biodiversità, il giusto guadagno dei produttori, il risparmio dell'energia), per dimostrare falsità globali, il tutto per tenere in piedi il colossale business del biologico, su cui, intravedendo l'affarone, quello di far pagare il doppio quello che vale la metà, si sono buttate molte delle bieche multinazionali (ma in questo caso la cosa non fa scalpore), influenzando così pericolosamente non solo l'opinione pubblica, che quella la puoi menare per il naso come vuoi con una certa facilità, ma indirizzando in questo modo la politica che ovviamente va dove vede che tira il vento ed i votanti. Ora, io non ho niente contro chi mette in piedi un business basato sul niente, anche se è ormai ben dimostrato che il biologico non ha nessun aspetto positivo rispetto alle produzioni tradizionali, anzi in alcuni casi, presenza di micotossine cancerogene e altro, è addirittura peggiore. Non mi interessa se questa gente sfrutta la credulità dei gastrogonzi per fare soldi o sbarcare il lunario, ognuno sia libero di comprare quel che gli pare anche a prezzo doppio se gli piace e se questo gratifica le sue credenze new age, io non ho pietà neanche per chi si rovina con le macchinette mangiasoldi, figuriamoci, in fondo nessuno ti obbliga con la forza e se vuoi comprare a caro prezzo delle meline marce e ti ritiri con ribrezzo e paura se uno ti offre un peperone dicendo che è OGM, saranno cavoli tuoi.

Ma il pericolo gravissimo per il mio paese è che la ricerca viene in questo modo trascurata e scompare a favore della riscoperta dei cazzi di saperi antichi, che se una varietà di pera è stata abbandonata in cambio di nuove varietà, ci sarà un motivo, la gente non era cretina, quella varietà, forse si ammalava facilmente o forse era una vera schifezza, anche se adesso la si vuol far passare per uno straordinario sentore acidulo e di profumo di bosco. O forse era poco produttiva. Anatema, ecco è la sete di guadagno che provoca la perdita di varietà che non producevano nulla anche se erano così buone, peccato che non ci sia nessuno disposto a pagare il doppio o il triplo per questa supposta qualità a scapito di una minore produzione. Perché non te la coltivi tu allora questa meraviglia che produce un terzo e te la vendi allo stesso prezzo? Qui passa il concetto di far credere che l'Agricoltura vera, sia quella hobbistica del ragioniere che dopo una settimana di sportello di banca, ha un pezzo di orto in campagna dove si fa quei dieci pomodori che gli parranno oro del Reno. La cosa grave è che quando tutto il castello del nulla crollerà, perché ogni business basato sulla fuffa, prima o dopo si smonta lasciando in braghe di tela chi ci ha creduto e magari investito, rimarremo senza nulla, indietro irrimediabilmente sulla ricerca e con una schiera di truffati che urleranno a gran voce chiedendo allo stato contributi per essere difesi dalla bancarotta, gridando contro l'ingiustizia del mondo che non li vuole capire. Comunque fate un po' come vi pare.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

lunedì 27 ottobre 2014

La castagna d'India

foto dal web

Quando comincia a rinfrescare l'aria, va a finire che ti prendi un raffreddore. Bisogna ricorrere al guardaroba e tirare fuori qualche cosa di un po' più caldo, che ti riscaldi anche dentro intendo. Ieri mi è capitato tra le mani un vecchio giaccone, una cosa che era lì da anni in fondo all'armadio. Sapete com'è, gli armadi degli anziani son sempre pieni di cose vecchie, che magari non usi per anni e che non ti risolvi mai a buttare via definitivamente, per fare spazio. Chissà, forse questo rimanere restii a comprare cose nuove e rimanere affezionati alle vecchie con maligna pervicacia, fa parte di quel malinconico attaccamento al passato, quello che ti fa vedere meraviglioso tutto quanto accadeva una volta e tutto pessimo ed inaccettabile quanto accade di nuovo. Giovani ignoranti e incapaci, cibo avvelenato da gnomi malefici che governano il mondo, politici ancora peggiori di quelli che hanno mandato in rovina periodicamente il tuo paese. Deve essere qualcosa di genetico, una tossina che si sviluppa con gli anni e che aumenta il livello di accidia. Però che soddisfazione tirare fuori quel vecchio giaccone, in fondo non era niente male, bello caldo e comodo, eh, oggi le cose non le fanno mica più come una volta. Ti sembra di essere avvolto in abbraccio caldo, metti le mani nelle tasche imbottite e più avanti quando farà più freddo, non avrai neanche bisogno dei guanti, robaccia moderna, di plastika, un orrore anche epistemologico. 

Tra l'altro, frugandoci in fondo a quelle due tasche, ci si trovano magari cose dimenticate da anni che saltano fuori così, quasi per magia, quasi volessero avere uno scopo preciso di riallacciare vecchi ricordi, momenti particolari ormai difficili da mettere a fuoco tra le onde del tempo. Eccola lì, proprio in fondo alla tasca sinistra, pensavo fosse una pallina o una biglia di metallo tanto era dura, invece, ripescata con cura e riemersa alla luce rivela la sua natura umile. Una piccola castagna d'India, dalla buccia marrone scuro, ancora lucidissima, forse il tanto maneggiamento inconscio a cui inavvertitamente è stata sottoposta in quegli anni. E' come un'onda di calore antico, un fuoco di un camino che risveglia ombre lontane. Era una vecchia mania del mio papà. Se vuoi essere sicuro di non prenderti un brutto raffreddore all'inizio dell'inverno, devi tenerti una castagna d'India in tasca. Andavamo assieme nei giardini della stazione dove c'erano dei grandi ippocastani, quando arrivavano le prime giornate fredde dell'autunno, ai primi d'ottobre quando ancora non andavo a scuola. Certo oggi non ci sono più quei freddi di una volta, lo sanno tutti, il tempo è tutto cambiato e non ci sono più neanche le mezze stagioni. Cercavamo per terra nelle aiuole di erba rada qualche mallo spaccato, cercando tra quelli più piccoli, il più tondo e regolare.

Era un po' come una caccia al tesoro a cui mi dedicavo con cura e passione, fino a che non saltava fuori la prescelta, piccola, tonda, lucidissima quando sgusciava fuori dalla spessa buccia verde scuro. Sembrava quasi bagnata. Quando era ben pulita, me la mettevo in tasca tutto soddisfatto e lì rimaneva, una specie di talismano curativo di un rito sciamanico padano che veniva dalla notte dei tempi. Ogni tanto il raffreddore me lo prendevo ugualmente, ma leggero, diceva mia mamma. Chissà, tutto merito della castagna. Eccola qui tra le mie mani, questa pallina tonda tonda che quasi scivola tra le dita. Come sarà finita in questa tasca? Forse una ventina di anni fa, quando il giaccone era nuovo, il mio papà ce l'ha infilata di nascosto, quando andavo a trovarli, sempre troppo frettolosamente, sempre preso dalle tante cose importanti da fare, troppo importanti per dare davvero retta a quei vecchi, come un ultimo tenero gesto di protezione, che per carità, non sarà vero, ma intanto che cosa ti costa. E' stata lì per vent'anni. Io ce la lascio, tanto male non fa, anzi sembra che tenga ancora più caldo questo giaccone, come una carezza od un abbraccio prolungato. Ma deve essere la temperatura che oggi si è alzata un po'. Mi sa che quest'anno lo scampo il raffreddore, non vengono mica più quei freddi umidi di una volta.

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

venerdì 24 ottobre 2014

Partire è un po' vivere

Foto A. Bo - agosto 14

Io credo che sia un po' come una droga; cominci, dici, tanto posso smettere quando voglio, poi, poco per volta capisci che non ne puoi più fare a meno, ma non solo, il problema è che cominci ad averne bisogno sempre in quantità crescente. Vorrei tanto dare la colpa alla società, ma non so se mi posso giustificare con questa banale e un po' desueta motivazione. Il fatto è che è quasi un mese che ciondolo in casa cercando di giustificare in qualche modo le mie (scarse) attività, mentre la verità è che non ne posso più, non sto più nella pelle, ho una voglia di disperata di partire, di saltare su qualunque mezzo che mi porti verso la Malpensa e che mi faccia salire su un aereo per portarmi via da qui. Lo so, lo so, direte tutti che mi faccio condizionare dalla politica italiana e che anche voi avreste voglia di andarvene da qualche parte, ma non è così, la realtà è che sono come quei ragazzacci che non avendo voglia di studiare danno la colpa al professore che non spiega bene. E' che mi brucia dentro la voglia di muovermi per andare a vedere le cose di cui sono curioso, mentre dentro di me arde implacabile la consapevolezza che il tempo si accorcia e ne rimane sempre meno. Tempus fugit, accidenti, però un po' troppo in fretta. Cerco di stordirmi con cene, la benevolenza degli amici ed altre piacevolezze, ma alla fine la scimmia sulla spalla si fa viva e pretende di essere soddisfatta.

Non voglio lamentarmi a torto, in fondo quest'anno, un po' mi sono mosso, ma è come ho detto all'inizio, non basta mai, anzi, ti sembra sempre di non aver sfruttato appieno le opportunità che ci sono state, maledici le incombenze e gli obblighi e ti riproponi di rifarti al più presto; intanto inanelli progetti per il futuro e compili liste di desiderata a cui porre attenzione negli sguardi diuturni ai siti di biglietti aerei superscontati, da afferrare al volo. Comunque basta alle ciance, la presente per notificarvi che quanto prima, una decina di giorni al più, il mio aereo è in partenza. Sarà un viaggio che spero interessante, che partendo da una zona ormai di moda, mi dovrebbe portare, viaggiando contro sole,  in un'area di quel paese abbastanza vergine, essendo stata da poco aperta. Vi saprò dire, anche in diretta come sempre e anche se chi ho mandato in avanscoperta a farmi da apripista, mi dice che le connessioni siano stranamente piuttosto labili, quando non inesistenti. Ma ci sarà ancora tempo per parlarne nei prossimi giorni. Quelli ahimè convulsi che precedono la partenza, sempre pieni di cose inderogabili da sbrigare, di scadenze entro e non oltre, di obblighi morali per impegni presi in momenti di debolezza. Va bene, l'importante è che siano già in tasca visti e biglietti, per il resto c'è Mastercard, sempre che ce ne siano ancora dentro, di fondi intendo. Ci sentiamo.   


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

giovedì 23 ottobre 2014

Telefoni bianchi

Fa freschino eh, stamattina! Era ora direte voi, intanto si calmano i bollenti spiriti. Sì, anche io sono meno nervoso rispetto a ieri. Anzi se devo dire la verità, sono addirittura pentito di avere trasceso un po' al di là delle mie consuete abitudini, con una poveretta, probabilmente sottopagata e pure precaria che si affannava a parare le chiappe alla sua indecente società. Va beh, ve la racconto, tanto di qualcosa devo pur scrivere e la lamentazione ha sempre un ché di terapeutico, oltretutto così non mi accuserete di parlare sempre di viaggi. I fatti sarebbero i seguenti. Dopo diverse telefonate di gentili signorine intente a millantare i vantaggi delle loro offerte imperdibili, sono stato convinto ad implementare il servizio internet su una mia linea tradizionale ,addirittura alla più moderna e veloce fibra. A tale scopo l'operatrice mi fissa un appuntamento dopo una settimana con il tecnico, per effettuare l'istallazione materiale. Parto di buon mattino e mi faccio i cento chilometri, con relativa spesa per recarmi sul luogo del delitto e attendo fiducioso. La giornata passa invano, del tecnico nessuna traccia. Torno mestamente alla magione avita e chiamo l'apposito numero per avere spiegazioni. Naturalmente l'operatrice è sempre diversa e quindi bisogna rispiegare tutta la cosa daccapo. Intendersi è sempre complicato per telefono e gli operatori dei call center, probabilmente sostituiti in continuazione, sono sempre piuttosto impacciati nel riprendere le fila del discorso. 

Quando alla fine ci si capisce, l'addetta si fa in quattro, altrimenti la licenziano, per trovare comunque una soluzione presunta che ti tranquillizzi e ti consenta di rispondere che tutto è ok alla telefonata di controllo che ti verrà fatta successivamente (e questa sempre con perfetta puntualità) per poterla cazziare in caso di insoddisfazione. Dunque pare che la mia gita a vuoto, sia stata dovuta al fatto che la mia linea aveva un tipo di contratto molto vecchio, addirittura preADSL e, in questo caso, ci sono sempre, capirà, problemi e ritardi (avvertire no, naturalmente) e di questo avrebbe però dovuto avvisarmi la precedente signorina (forse già frustata e licenziata). Per risolvere ogni cosa, mi si consiglia di accettare il cambiamento di numero, che essendo classificato come nuovo impianto godrebbe di priorità assoluta e in conseguenza di ciò mi viene dato un nuovo appuntamento con il tecnico per la settimana successiva tra le 11 e le 12, perché noi siamo precisi al riguardo. Nel giorno indicato, ripercorro con fiducia i miei cento chilometri e mi appresto all'attesa del tecnico, che naturalmente non si presenta ne a mezzogiorno e neanche nel pomeriggio. Con una certa irritazione ricontatto il numero apposito, facendo presente che oltre alle spese sostenute, per completare la presa per il culo in giro, nessuno mi ha avvisato, il tutto naturalmente dopo essere riuscito, con fatica a rispiegare tutto il travaglio della pratica dall'inizio alla nuova mia, interdetta, interlocutrice. 

La mia ineffabile controparte, si dichiara subito sbalordita dal fatto che mi sia stato detto di cambiare numero, cosa probabilmente non necessaria e dopo aver fatto diverse considerazioni sull'incompetenza delle colleghe pressapochiste (che ormai saranno ad ingrossare le liste dei disoccupati), mi rimarca tutta una serie di imprecisioni che forse sono state causa del misunderstanding. Intanto dovevo essere informato di quale fosse il nuovo numero assegnatomi, base di ogni futura richiesta, inoltre avrei dovuto procedere immediatamente alla disdetta del vecchio abbonamento con relativa raccomandata RR, ad una misteriosa casella postale, non contattabile diversamente, in quanto ogni settore è un compartimento stagno che per maggiore efficienza, non può comunicare con gli altri. La evidente stortura dell'operazione era anche provata dal fatto che l'appuntamento mi era stato fissato sette giorni dopo la richiesta, quando si sa che per la fibra devono passare almeno dieci giorni. Tutto a carico della precedente operatrice infingarda e propalatrice di false informazioni a quest'ora probabilmente impalata sulla pubblica piazza. Inoltre, per buona pesa, pare sia legge che il tecnico deve contattare telefonicamente il cliente per confermare la sua venuta, questo per non fargli fare appunto attese a vuoto. Fingo di accettare queste spiegazioni e si fissa un nuovo appuntamento, convinto anche dal fatto che la mia esimia interlocutrice, mi blandisce con l'offerta speciale di avere il contratto full allo stesso costo di quello inferiore, per compensarmi dei disagi e delle spese subite. 

Inoltre per togliermi d'ogni ambascia, mi registra l'IBAN in modo da sgravarmi dell'obbligo di controllare le bollette che mi verranno addebitare direttamente e registra nuovamente il mio numero di telefono per il contatto di conferma del tecnico. Vinto da tanta efficienza, invece di ribaltare il tavolo e cambiare gestore verso uno delle circa dieci telefonate al giorno che mi arrivano con offerte mirabolanti da suadenti voci dall'accento albanese, lascio passare i giorni concordati e poi, dato che non sono completamente appeso al pero, la sera prima, ricontatto il numero in questione e dopo aver rispiegato tutta la vicenda (cosa che in termini di tempo sta diventando piuttosto corposa), faccio presente che il Tecnico, a questo punto lo scrivo con la T maiuscola, non  mi ha affatto contattato per la conferma dell'appuntamento (tra le 14 e le 15) e non vorrei, non fosse mai, che mi facesse il pacco anche questa volta. La signorina conferma che la pratica è aperta e l'appuntamento segnato, ad ogni buon conto, per rassicurarmi, scrive una ulteriore mail di sollecito al Tecnico, che, capirà, non può essere contattato telefonicamente per non disturbarlo, ma che comunque è certo mi contatterà personalmente prima di partire per il suo giro al mattino, proprio per una questione di efficienza. Prendo per buona la spiegazione, ma il mattino successivo, ieri per la precisione, richiamo il detto numero, ricomincio da capo la spiegazione della pratica e faccio presente che pur essendo quasi le 10, il tecnico non mi ha affatto chiamato per conferma e non vorrei intraprendere il terzo viaggio a vuoto. 

Ma per carità, non sia mai, signore, anzi vedo qua che il Tecnico ha risposto alla mail confermando la sua visita. Procedo alla partenza e mi rifaccio per la terza volta i cento chilometri in questione. La campagna è amena e il cielo sereno, prodromo dell'incipiente freddo autunnale finalmente alle porte. Il cambiamento climatico sarà segno astrale della soluzione dei miei problemi? Chissà, intanto arrivo a casa e mi appresto all'attesa. Le 14, poi le 14 e 30, poi le 15. Nessuno all'orizzonte. Eseguo una respirazione zen per mantenere basse le pulsazioni, poi i cinque tibetani, per rasserenare lo spirito. Alle 15 e 30, comunque leggermente alterato, richiamo il numero imputato. La mia voce deve probabilmente essere di qualche tono superiore al consueto, perché dopo la naturale e completa rispiegazione di tutta la vicenda, la gentile signorina è assolutamente intimidita (evidentemente appena assunta al posto di tutte le precedenti colleghe licenziate in tronco) e quindi ancora preoccupata della reazione del cliente. Mi conferma che il tecnico ha riconfermato l'appuntamento con contromail, ma che non potendo essere contattato telefonicamente per non disturbarlo nel lavoro, gli viene mandata una ulteriore mail di sollecito della conferma della riconferma, con preghiera di chiamarmi immediatamente e per chiarire. Alla mia richiesta di parlare con il responsabile, mi viene risposto candidamente che non c'è un responsabile, forse per risparmiare, penso io e per gli eventuali reclami di scrivere una lettera alla stessa casella postale fantasma dove si inviano le disdette. Tuttavia il caldo consiglio della signorina, che a mio disonore devo dire di avere trattato un po' troppo bruscamente, è di attendere almeno ancora un'oretta prima di ritornarmene a casa con le pive nel sacco che non si sa mai, le vie del Signore (e del Tecnico) sono infinite. 

Mentre il tempo passa con me rabbuiato in attesa, arrivano le 16 e con loro finalmente una telefonata del Tecnico, con T maiuscola, che si scusa, ma a causa di un contrattempo, capirà, è in ritardo, ma tranquillo che arriva. Infatti dopo poco eccolo che con nordica efficienza, sbarca in casa e in una mezz'oretta sistema il tutto, non solo, ha anche tempo di spiegarmi che naturalmente non sarebbe stato necessario cambiare numero ma probabilmente è un escamotage dell'operatore che gli consente di avere un qualche bonus particolare per il nuovo abbonato, capirà adesso questi call center funzionano così, siamo stati costretti dal fatto che l'odiata concorrenza lavora in questo modo orrendo. Quando si dice uniformarsi al basso. Va bene, pazienza, comunque la pratica sembra essere andata a buon fine, vuol dire che mi consolerò con lo sconto promesso. Arrivo a casa più tranquillo e anche un po' dispiaciuto con me stesso, per il fatto di non riuscire a mantenere un corretto autocontrollo, che gli anni di militanza in discipline orientali dovrebbero avermi insegnato e consolandomi per l'aver quantomeno avuto una tariffa di riguardo. Nella buca delle lettere mi attende, puntualissima questa volta, una lettera della suddetta compagnia telefonica che mi chiede di rimandare i documenti firmati a riguardo del nuovo contratto su cui, naturalmente non c'è traccia dello sconto promesso e in cui, per buona misura, mi si chiede l'IBAN, già dato a suo tempo, ma sarà per sicurezza, forse se lo sarà portato via una delle mie interlocutrici precedenti a cui non è stato rinnovato il contratto. 

mercoledì 22 ottobre 2014

Rimpatriate

Ma come è possibile, eravamo ragazzini, ci siamo distratti solo per un attimo e sono passati più di cinquanta anni. Ma che bella banalità Enrico, ma non potevi trovare qualcosa di meglio? Direi proprio di no. Ti ritrovi attorno a un tavolo ed alla fine, nessuno è cambiato da allora, li riconosceresti tra mille, davvero una cosa strana, ma il tempo non si accanisce sui sentimenti, al massimo sfiora la pelle, lasciandovi un tocco vissuto, niente affatto sgradevole, come quelle cose antiche che la patina del tempo rende molto più interessanti, di quando erano state costruite. Anche se alla fine tornano alla mente sempre gli stessi episodi, ma se è così significa che erano stati importanti ed allora ti rimane sempre un senso di piacevolezza, di calore. I ricordi hanno un vantaggio su tutto il resto, in qualunque loro aspetto, la parte meno gradevole, si stempera nell'importanza e viene per così dire messa in minoranza, non si considera più; riemerge invece per contrasto soltanto quanto di bello, di unico, di irripetibile condisce la memoria e dà un senso a quanto sei ora. 

Ah quella scatola da scarpe confezionata come un bel regalo e che poi conteneva una pantegana morta, data così nel bel mezzo della serata danzante di paese, la Pina che urla e scappa via, l'orchestra che si ferma. Che risate! E quella biscia? E le gite in bicicletta a fare il bagno al fiume. Che momenti magici, gli attori del momento si sfumano nel passato, chi c'era? Chissà; che bello, che momenti. Un piacere dolce, una delicata malia che può prendere solo chi era là allora. Forse è proprio questa la parte più bella dell'invecchiare. Potere con calma guardare in tutta quella grande biblioteca che sta alle tue spalle, scegliere un libro a caso, di tanto in tanto e ritrovare subito o appena dopo un attimo, il piacere di averlo già letto e di ricordarne tutte le pagine che ti hanno emozionato. Un tratto comune in cui tu sei comunque protagonista, sia un libro giallo, sia un romanzo d'amore, una guida o un noioso trattato tecnico. Ci sei tu e la tua vita, che ti appartiene. E poi c'è la soddisfazione di essere ancora qui a parlarne e a condividere questo piacere, che non è mica poco. 

Arrivederci amici!


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

lunedì 20 ottobre 2014

Recensione: L. Hallstrom - Amore, cucina e curry

Ogni tanto mi portano anche al cinema. Dunque ecco qua. Tratto da un romanzotto di Morais, dall'autore di Chocolat, ci si aspetterebbe un po' più di originalità, invece diciamo che questo gradevole filmetto ne ricalca in pieno soltanto stile e andamento. Confezionato con cura ed una certa eleganza a partire da una accattivante fotografia, con ottimi caratteristi a condire il tutto, segue un filone che ormai sembra imperare nello showbusiness, la cucina. Visto che ormai su ogni schermo televisivo non si parla d'altro e che i ragazzini sognano di fare lo chef invece che il calciatore, si è pensato di mettere insieme un buon prodotto di consumo, ben presentato, che paghi lì'occhio assieme al gusto come si conviene nei ristoranti che vogliono fare successo. L'esile vicenda, comprende un giovane cuoco indiano costretto a fuggire dalla sua terra con la sua famiglia, che si trasferisce in un idilliaco paesino francese, appunto nel mondo simbolo della cucina assoluta e dopo alterne vicende con la cattiva oppositrice che poi, finalmente affascinata si trasforma in buon mentore, mutandosi da strega infame in fata buona, incontra successo e amore e vissero felici e contenti. Passerete un paio d'ore gradevoli e moderatamente divertenti, perché comunque se sei un abile confezionatore di piatti raffinati alla fine anche con ingredienti banali, riesci a presentare un piatto piacevole. D'altronde ne abbiamo anche bisogno, non è obbligatorio produrre solo capolavori. Fatto apposta per andare bene sugli schermi di tutto il mondo, perché così si fa il successo globalizzato, piacerà di certo anche dagli Stati Uniti all'India, dove rivaleggerà di certo con Bolliwood. Almeno però dargli un titolo meno scontato, ma questo è solo un problema del distributore italiano.



Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

domenica 19 ottobre 2014

Recensioni: G. Niccolai - Rai'an

Fantascienza e Giappone antico. Davvero una chicca per chi ama uno dei due generi, ancora di più per chi come me li ama entrambi. Al di là dell'intreccio narrativo, di per sé avvincente, il libro è di estremo interesse per chi voglia approfondire la storia e la cultura del Giappone medioevale, argomento in cui, l'autore evidentemente documentatissimo, profonde dettagli che non mancheranno di affascinare anche gli iniziati. La stessa tecnica letteraria dell'io narrante è desunta da antichi testi giapponesi. A poco a poco vi appassionerete ai personaggi, che raccontano attraverso la storia, anche i loro sentimenti e le loro sensazioni. L'autore, tra l'altro è un informatico attivo nella ricerca sull'intelligenza artificiale e sui linguaggi di programmazione innovativi, cosa non secondaria negli spunti del romanzo. Un libro che vale davvero la pena di leggere. E' disponibile su Lulu sia in versione cartacea che in ebook. 

Kliccare qui per la versione libro e

qui per la versione elettronica

L'ebook sta naturalmente anche su iTunes, Google play e Kindle storeSe poi vi ci appassionate, potrete proseguire l'avventura qui in Pillole di Rai'an.




Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

giovedì 16 ottobre 2014

Mozambico 17: Recensione - R. Nani - Dona Ana


Non è facile trovare qualche cosa da leggere sul Mozambico. Per chi fosse interessato, suggerisco la riedizione per i Grafismi di Boccassi, di questo volume di Roberto Nani curata da Bruno Soro, che, oltre ad avere una ricca documentazione iconografica,  racconta la sua esperienza decennale in quella terra attraverso una serie di gustosi episodi che fanno ben comprendere le difficoltà che si incontrano ad operare in quel paese. I luoghi raccontati sono proprio gli stessi di cui vi ho parlato nei giorni scorsi e la sua descrizione del mercato di Lichinga è talmente coinvolgente che vi sembrerà di esserci in mezzo. L'arrivo dei banchi nuovi nella scuola di Lichinga, le suore dell'orfanotrofio e le sottilette scadute, Nordino Estevao, l'aspirante studente, Felipe che rischia la prigione, ad uno ad uno i personaggi raccontati, emergono come figure emblematiche di una situazione e di un modo di vivere, più che come individualità singole. Dona Ana, la domestica che ha conosciuto al suo arrivo e che dà il titolo al libro,  ne è l'esempio; gli basterà soltanto osservarne comportamenti e modi di fare per capire il paese di più che attraverso mille discussioni e letture. Roberto ha amato molto il Mozambico e là ha realizzato molte cose concrete, due scuole, una biblioteca, un pozzo, un mulino per le bambine di un orfanotrofio, ma se ne andato in dicembre e il lavoro che lui ha cominciato laggiù merita davvero di essere proseguito. Per questo il suo libro sarà presentato lunedì 27 di ottobre, alle 16:30 ad Alessandria presso la Fondazione Cassa di Risparmio - Sala Broletto di Palatium Vetus in piazza della Libertà, dove verrà illustrato anche il progetto Mozambico. Quindi vi invito, se siete miei concittadini, a partecipare numerosi all'evento. Tutto il ricavato del libro a offerta libera, verrà dedicato al progetto. Per chi fosse interessato al libro, disponibile nell'occasione, è possibile anche averlo presso la sede dell'ICS (Istituto per la Cooperazione e lo Sviluppo), Via Verona 17 - Alessandria.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

mercoledì 15 ottobre 2014

Mozambico 16: Considerazioni finali

Mecati




Negozio di scarpe
Direi che qui il viaggio si ferma e (per ora) lo possiamo considerare concluso. Quello per cui eravamo andati è stato fatto secondo previsioni e sono stati impostati contatti interessanti per il futuro con nuove possibilità di fare cose. Le carte necessarie sono state firmate, le difficoltà aggirate e tutto sembra procedere per il meglio, in ogni caso vi terrò informati di come stanno procedendo i lavori. Per me è rimasta a coté, l'opportunità che ho avuto di conoscere questo paese in molti dei suoi aspetti più interessanti e che vanno al di là di un semplice approccio turistico. E' un paese diverso da tutti gli altri africani in cui sono stato; quello che predomina e lo differenzia nettamente dagli è la povertà (172° nel mondo, uno degli ultimi), la mancanza di strade e di comunicazioni (pare al terzultimo posto) e la quasi totale assenza di turismo. Nonostante la speranza di vita sia pessima, attorno ai 40 anni e curiosamente uno dei paesi in cui è inferiore nelle donne, è uno dei più fecondi, tanto che in quaranta anni, dopo la fine della guerra di liberazione, la popolazione è passata da 6/7 milioni a oltre 25, alla faccia delle malattie, delle carestie, della guerriglia che ha insanguinato il paese per decenni. Un altro segno della vitalità incredibile dei popoli africani. Tuttavia anche loro cominciano a capire che troppi figli significano miseria, impossibilità di istruzione, degrado. Quelli più attenti e all'apparenza più responsabili, te lo dicono chiaramente, non si può più fare come una volta, io non avrò di certo più di cinque o sei figli. 

Un villaggio
Grande tre volte l'Italia e con un terzo di popolazione si può definire un paese quasi spopolato, considerando che quasi la metà dei suoi abitanti vive negli agglomerati urbani più importanti; a Maputo si contano infatti ormai 2 milioni di persone. Difficilmente ci verrete per ragioni turistiche come ho già detto, anche se pare che alcune zone sul mare, nell'area di Pemba al nord e nell'arcipelago di Bazaruto al centro, siano molto belle. C'è poi il lago Niassa con il suo fascino misterioso di terra incognita e spopolata ed infine alcune riserve assolutamente poco frequentate in cui si dovrebbe trovare una wilderness davvero rara. Il fatto è che tutte queste aree sono scomodissime ed estremamente costose da raggiungere in aereo o con trasferimenti in macchina di giorni su strade dissestate. Dunque tutto rimane lì, a livello potenziale, diamanti nascosti in attesa che cambino le condizioni di accessibilità e che qualcuno si decida a scoprirli. Il paese vive di una agricoltura di sussistenza, spesso del tipo taglia e brucia, pratica primitiva che devasta i terreni più di ogni altra, che consente alla gente dei villaggi di sopravvivere discretamente se la stagione delle piogge è in regola in quantità e distribuzione. Diversamente è la fame. La situazione sanitaria è pessima con forte presenza delle parassitosi classiche africane, dalla bilharziosi alla malaria; non per nulla, proprio a causa di questa insalubrità, tutta l'area e le coste in particolare, vennero popolate molto in ritardo rispetto al resto del continente. 

Gente del Niassa
L'industria manifatturiera, anche di piccole dimensioni è quasi completamente assente. Quasi tutti i prodotti sono importati o dal vicino Sudafrica o dalla Cina, la fabbrica del mondo. Nel primo impatto che avrete, Maputo non vi parrà molto dissimile dalle altre capitali africane, la frenesia di costruzioni di cattiva qualità, accanto a quelle del passato recente che si stanno sbriciolando al sole del tropico e a quelle del passato coloniale, paradossalmente le meglio in salute, mescolate disordinatamente tra lucidi centri commerciali, palazzi di vetro delle telecomunicazioni e hotel di lusso, dove camminano veloci neri giganteschi soffocati da cravatte lucenti, dentro vestiti scuri e camicie bianchissime e incongrue all'ambiente circostante. Appena più in là, la distesa delle baracche della periferia che si allarga ogni giorno come una piovra malefica. Nei grandi viali già comincia ad esserci molto traffico di SUV neri e pick up giganteschi che sollevano la polvere rossa che si accumula ai lati, in nuvole spesse che si depositano poi con calma su tutto, insultando il color lavanda delle jacarande fiorite. La città è viva, negozi, commerci e poi tutto l'apparato amministrativo e di governo con gli addentellati della politica e dei suoi affari in chiaroscuro. Su molti angoli, poliziotti appostati a fermare gli automobilisti per estorcere loro qualche mancia. Intanto crescono torri di cristallo, banche, supermercati, destino comune agli altri vicini già ricchi o in attesa di diventarlo. 

Ragazza bantù
Poi, al di là di spazi infiniti, di distese di bosco e di colline coperte di cespugli,  c'è il paese rurale, con i suoi villaggi ai bordi della strada, nella maggior parte dei casi non asfaltata, polverosa nei mesi secchi, letto di fango in cui impantanarsi, nella stagione delle piogge. Capanne di mattoni crudi coperte di paglia, le palhotas, un'unica stanza con un unico arredo il palo interno di sostegno, che serve anche per appoggiare abiti o recipienti. Ognuna è circondata da un recinto di frasche secche tenute insieme da canne che racchiudono un cortile in un angolo del quale, vicino alla casa, c'è lo spazio per il fuoco della cucina e nell'angolo opposto, più lontano, il gabinetto. Fuori del villaggio, anche molto lontane, le machambas, i campicelli dove ogni mattina si va a lavorare sperando in una stagione buona, che consenta di riempire il magazzino rotondo sollevato da terra per evitare topi e altri animali, di pannocchie di mais bianco per fare la xima, una polentina da arricchire con le proteine dei fagioli, in pratica il pasto tipo giornalierodi tutti i contadini. Su tutto aleggia come un incubo il problema dell'acqua, sempre lontana, insicura, fangosa che costringe donne e bambine ad ore di cammino con 30 chili sulla testa, ogni giorno della loro vita. Questo deve essere un incubo continuo, procurare l'acqua per la giornata e non ammalarsi di dissenteria o peggio. I bambini non li contano nel numero degli abitanti, non si sa in quanti arrivano all'età adulta, l'ho già detto mi sembra, ma è sempre opportuno ricordarlo. 

Una festa di villaggio
Per questo i pochi villaggi dove c'è un pozzo, si possono dire fortunati, rappresenta davvero un salto di qualità di vita, ore in più da dedicare al lavoro o alle relazioni e magari, se c'è, per andare a scuola. Una vita dura insomma, condita delle grandi feste delle occasioni sociali, matrimoni, circoncisioni. Un'Africa antica, vecchia di millenni in cui la sola novità sono i telefonini, oggetti alieni catapultati qui dal cielo ad opera di qualche stregone maligno che opera di certo in stretto contatto con il demonio. Un paese difficile insomma, popolato anche da avventurieri da romanzo, da cercatori di opportunità e dagli ultimi lampi di una lotta tra fazioni che ha contribuito molto a far rimanere questa nazione indietro nella corsa della storia. Guerre, morti, sangue, il kalashnikov nella bandiera qualche cosa vorrà pur dire. In città tra politici occhiuti, una classe media che comincia a cresce bramosa di beni di consumo, impiegati con gli occhiali e borse dei documenti, donne in abiti eleganti o in capulane multicolori e fazzoletti in tinta, ma con acconciature accurate e tacchi altissimi, gente che rovista nell'immondizia prima di tornare ai bairros di periferia, è cominciata una corsa all'avere. Nei campi, tra gli stocchi stentati e secchi del granoturco, i contadini stanno seduti a terra e ti guardano con occhio stanco, senza capire ancora dove e perché devi continuare a correre. 

Al pozzo

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!