lunedì 30 settembre 2013

La tempesta.

dal web

Mi suda il collo. Me la ricordo da quando ero piccolo questa frase. La ripeteva mio papà, quando qualche cosa che gli sembrava grave e stazionava nell'aria come i prodromi di un violento acquazzone che sta per arrivare a  far disastri e a portare via tutto. Acqua e grandine, come quelli che a fine estate arrivano dalla parte di Biella. Li sentiva nell'aria, che sembrava più pesante del solito, come fosse un gorgogliare lontano che si avvicinava in fretta, preannunciato da un colore scuro scuro nel cielo di nord ovest. Nuvole grigio scure che occupavano la parte bassa di un cielo, già rovinato, che da tempo aveva perduto la chiarezza e l'azzurro estivo. Quando arriva fa danni, danni gravi, spacca tutto e tu non puoi fare nulla, anche cercare di mettersi al riparo è impossibile se sei in campagna, guardi in alto e speri invano che giri verso Spinetta, tanto lì avevano già la Montecatini che soffiava veleno, cosa vuoi che sia. Quando stanno per arrivare queste cose, quelli che stanno sotto, nel campo, possono solo guardare in su, non hanno nessuna possibilità di interferire, di modificare, di cambiare il corso delle cose, solo subire. Uno dice, beh lì è la natura che fa il suo corso, che ci vuoi fare. Eh no! 

Anche quando le cose le conducono gli uomini, accade tutto nello stesso modo, solo che il disastro lo guidano loro, con pervicace incoscienza, con totale dispregio di quanto succederà inevitabilmente, quello che conta è la situazione del signore degli anelli del momento, conta solo lui e quando si avvede che sta per crollare, con sguardo terreo, preferisce che tutto perisca con lui, una specie di punizione per chi non lo ha aiutato, salvato, amato, difeso abbastanza, Lui, che tanto ha fatto per questa feccia priva di riconoscenza. Che muoiano tutti, visto che deve, Lui, perdere tutto. E' sempre stato così, i più grandi infami della storia, prima di scomparire, vinti dal rivolgimento delle cose e dei tempi, prima di lasciare o tentare di fuggire verso l'amara via dell'esilio, hanno cercato di bruciare la città o far saltare il fortino. Sotto, nella città bassa, la folla muta, guardava il cielo gonfio di nubi. Qualcuno piangeva, conscio di quanto stava per accadere, altri non capivano, altri ancora invocavano il nome salvifico del tiranno, che venisse a trarli fuori dall'impaccio, mentre lui dalla torre dava fuoco alle polveri; qualcuno ballava sulla tolda della nave. Stamane il cielo è nero, mi suda il collo, ragazzi.


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sabato 28 settembre 2013

Cronache di Surakhis 58: Dimissioni di Massa.

La notte era scesa livida sulle Colline profumate. La città, ma anche tutto il pianeta era avvolto dai fumi e dalle esalazioni che l'esplosione, dovute all'incuria progressiva, delle centrali a merda, avevano provocato. I litigi delle varie fazioni avevano bloccato ogni decisione e quando i grandi contenitori che raccoglievano gli escrementi di tutto il pianeta erano esplosi, i delegati, impegnati nel decidere se i colori delle nuove divise dovessero rappresentare anche i quartieri di rispettiva elezione e soprattutto il numero di ancelle di piacere a cui ognuno aveva diritto, avevano fatto spallucce. Intanto il liquame saliva e nella città bassa era già arrivato al primo piano ed aveva invaso le caverne basse, quelle scavate alla base delle montagne di immondizia che da decenni ricoprivano la città. I cunicoli delle miniere erano tutti chiusi e i minatori si aggiravano neghittosi in cerca di qualche cosa da mettere sotto i denti. Avevano così scoperto una verità a lungo coperta dalle autorità cittadine. Tutti si erano chiesti infatti come mai dalle centrali a merda, dopo la produzione di energia, non uscissero scorie di nessun tipo e pochi avevano fatto caso che le grandi fabbriche per la produzione del pastone, il cibo che veniva fornito gratuitamente ai lavoratori come salario (era stata una grande conquista sindacale, che aveva barattato la gratuità del lavoro con la fornitura gratuita di cibo, diritto inalienabile dei cittadini di Surakhis), erano situate proprio a valle delle centrali stesse e qui affluivano le scorie esauste dopo l'uso. 

Qualcuno aveva capito che era proprio la merda che rifluiva dai serbatoi digestori, la materia prima fondamentale con cui venivano fabbricati i cosiddetti pani base e i pastoni aromatizzati con cui venivano fatte le minestre. Molti gourmet obiettarono che era proprio la materia prima a dare al prodotto quell'inconfondibile sentore delizioso, che tutti ritenevano una caratteristica fondamentale della cucina planetaria, famosa in tutta la galassia e Charly Littlestones, capo della potentissima setta dei bioeconaturisti, si era spinto a dire che in fondo la merda era il più biologico e naturale tra tutte le materie prime, fornito oltretutto stagionalmente e a chilometri zero. Tuttavia questi argomenti ormai non appassionavano più molto la popolazione che oramai, anche nei quartieri alla base delle colline, ce l'avevano alle ginocchia mentre la fornitura di cibo era stata sospesa da giorni, così tutti gli occhi erano rivolti al palazzo del governo, dove l'imperatore era rinchiuso nel palazzo circondato dalle guardie che lo dovevano tradurre al patibolo e rifiutava di aprire le porte. I suoi accoliti e la sacerdotessa Massa, la più influente delle sue fedelissime, si era dimessa per solidarietà e questo suo gesto simbolico aveva trascinato tutti gli altri in una ordalia che era poi degenerata in una orgia epocale, anche se svaniti i fumi dell'alcool e degli afrodisiaci, le dimissioni erano state firmate da tutti col sangue, pur mantenendo l'uso della casa di piacere parlamentare dove tenevano seduta fissa, allietati dalle sacerdotesse e altre prebende minori, come stipendi e pensioni. 

Il governo era alle corde, il provvedimento sui colori delle divise era ormai saltato e anche l'importantissimo decreto che doveva stabilire in via definitiva il numero delle pieghe dei pepli delle assistenti succhiatrici ormai era impossibile da definire nei tempi previsti. Ogni decisione era sospesa. Di fuori le banda di Cricket si aggiravano lanciando slogan contro il palazzo, ribadendo la loro rinuncia alle prostitute di stato che tanto ognuno si aggiustava da solo, anche se poi molti di loro avevano obiettato che non era giusto pretendere un pié di lista per ogni prestazione usufruita. I più, però, scrutavano il cielo per individuare scie chimiche lasciate dalle astronavi andromediane, che portavano i clandestini fino in prossimità del pianeta per poi lasciarli nello spazio vicino, in mano ai predatori di organi. Insomma c'era un po' di confusione e anche se l'imperatore aveva dichiarato ufficialmente che prima di consegnarsi alla milizia avrebbe preferito fare esplodere il pianeta (molti pensavano infatti che fosse stato un suo ordine preciso quello di far fuoriuscire la merda dalle centrali, per creare un diversivo) e che prima dell'estremo sacrificio (quello del pianeta), se ne sarebbe andato in esilio su Capella III, il pianeta delle vergini multivulvari, dove avrebbe scrittole sue memorie, deluso del fatto che il suo mondo a cui tanto si era dedicato, non lo amasse più, dopo tutto quello che lui aveva fatto.

Eppure non si era mai tirato indietro quando, con noncuranza verso i suoi interessi personali, aveva corrotto, rubato e operato ogni genere azioni indecenti, per il bene dei suoi sodali ed in fondo della popolazione tutta, secondo le leggi di natura. Pianeta ingrato che non lo meritava. Meglio che fosse distrutto per sempre, la galassia non lo avrebbe rimpianto. Nella città bassa, invasa dai liquami e soffocata dalla puzza, intanto l'ira sorda degli schiavi ribolliva silenziosa e molti, sui cumuli di immondizie cominciavano ad affilare lame di fortuna e a fissare a lunghi bastoni, le mazze pesanti. Paularius, che riusciva, per innata consapevolezza, a prevedere gli andamenti dei tempi, aveva trasformato in crediti galattici tutte le sue proprietà e, con solo una dozzina di concubine a cui era particolarmente affezionato, aveva lasciato il pianeta da qualche giorno, per trasferirsi su un sistema solare periferico e vedere cosa sarebbe successo. Lì apprezzavano molto la cucina di Surakhis. Avrebbe aperto una pizzeria in attesa di tempi migliori, intanto i cambiamenti climatici non influivano sulla quattro stagioni. 


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Sansone
Civiltà perdute.

giovedì 26 settembre 2013

Giovani e precarietà.

dal web


Dice Lin Yu Tang che l'uomo è l'unico animale che lavora coscientemente, mentre la natura ozia felice. Certo che per un ragazzo che si affaccia oggi nel mondo del lavoro, la cosa non è rosea, a parte il fatto di trovarlo, il lavoro, ma il problema è che ti trattano come se ti facessero un piacere a farti lavorare, quindi non pretendere anche di essere pagato, che volgarità, anzi devi anche dimostrare che la precarietà ti piace, che è una cosa bella e positiva, che andare a casa e lasciare la scrivania è sofferenza, quasi quasi ti fermeresti ancora un poco dopo le 22 per portanti avanti. Naturalmente nessuno ci crede, ma devi far finta di crederci. Certo è una questione di forza contrattuale, oggi c'è tanta offerta e quindi ti tengono per le palle e strizzano. Ti gonfiano ma devi dire che sei molto contento e che è giusto che sia così, aspettando che cambi il vento. Ma una volta com'era? Mia mamma aveva fatto solo la terza elementare e la scelta era solo quella di rimanere nel cascinotto della nonna ad aiutare a mungere l'unica mucca oppure andare a far qualcosa di utile. La mandarono da una sarta che prendeva tutte le ragazzotte che volevano andare a "imparare a cucire". Cominciavano ad imbastire, poi a fare gli orli, passavi orlatrice, poi  cucitrice e solo dopo qualche anno ti lasciavano tagliare la stoffa. 

Ci rimase tre anni dai 15 ai 18. Soldi? No, non era previsto, vero è che a Natale, la Signora dava ad ognuna delle ragazze una grossa monetona da 5 lire, che tutte portavano orgogliose a casa. La pensione e la mutua la dovevano ancora inventare e quando mia mamma si beccò la difterite, che per poco non se la portò all'altro mondo, mio nonno vendette parte del raccolto del campo piccolo di fronte alla casa, per procurarsi una grossa iniezione che arrivava dall'America e la salvò. Poi conobbe mio papà alle Fonti di Valmadonna e io ebbi il guardaroba e i rammendi assicurati a vita. Forse neanche quelli erano bei tempi per chi aveva intenzione di lavorare. Mio papà faceva le scarpe e siccome pare fosse bravo, il padrone lo faceva andare anche la domenica mattina, però qualcosa in più gli dava, se no se lo fregava la concorrenza. E' il potere contrattuale che bisogna avere. Quando è toccato a me, ci cercavano come il pane, noi laureati di allora, però si lavorava il sabato mattina e per il primo anno, che si chiamava borsa di lavoro invece che stage, mi davano un rimborso spese ridicolo. Mah, credo che se i giovani si illudono che qualcuno farà qualche cosa per loro, non hanno ancora capito bene come gira il mondo. Ognuno cercherà di sfruttarli nel maggior modo possibile pur che lo consenta la situazione generale e cercherà di spiegargli che è un bene che sia così. E' un mondo difficile che volete.

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mercoledì 25 settembre 2013

Gwei Lo.

Avete presente i falsi amici linguistici, quelli che vi fanno prendere cantonate imbarazzanti quando pensate di esprimervi ad orecchio in una lingua che conoscete approssimativamente? Un amico che pensava di conoscere il francese, così vicino al suo piemontese, disse languidamente ad una fanciulla che sembrava corrispondere alle sue occhiate da triglia in carpione: Je te voudrai baiser, gongolando di saper utilizzare correttamente il congiuntivo in una lingua diversa dalla sua e ne ricevette in cambio due sonori schiaffoni, ignorando che che il corrispettivo di baciare è embrasser o tutt'al più un gergale bisouter, mentre il verbo da lui usato aveva un significato assolutamente volgare e corrivo di cui non voglio più oltre investigare, anche se in effetti corrispondeva al suo pensiero segreto. Dunque ciò è un po' più inusuale con il cinese, dato la lontananza tra le nostre lingue, purtuttavia, voglio segnalarvi questo divertente qui pro quo capitato all'amica Ciccola di cui vi invito a seguire le tappe del suo viaggio cinese qui, che nei pressi di Feng Huang (la città della Fenice cinese, animale mitico con dorso di tartaruga, becco di gallo, collo di serpente, testa di gallina, zampe di cervo, petto d'oca, coda di pesce e muso di rondine) si è sentita apostrofare da un vecchio a cui chiedeva informazioni sulla sua destinazione, con l'appellativo alquanto sinonapoletano: Guagliò o così almeno pareva. In realtà è assai più probabile che il tizio abbia usato un appellativo piuttosto comune, anche se tradizionale, in uso in Cantonese e probabilmente con poche varianti fonetiche, anche in altri dialetti del sud della Cina. 

Trattasi infatti di Gwei Lò - 鬼佬 - il cui significato letterale non proprio positivo è Diavolo straniero, un po' come Gringo in Messico. L'appellativo era usato soprattutto ad Hong Kong e a Canton per indicare gli uomini bianchi. Il primo ideogramma 鬼 - Gwei (in Mandarino Guǐ ) ha il significato di Spirito, fantasma (sempre raffigurato bianco e pallido e con le sembianza deformi, soprattutto il naso e i peli abbondanti)  e anche diavolo cattivo, ma anche furbo, astuto, maligno. L'ideogramma raffigura appunto un essere mostruoso dalla gran testa deforme e dai tratti orrendi, con una serie di sottostanti appendici che svolazzano qua e là. Il secondo 佬- lo (in mandarino lǎo) significa solamente individuo, tipo (la parte sinistra è infatti la stilizzazione di uomo, mentre la destra, che si pronuncia appunto  lǎo e che significherebbe anziano, saggio, ha qui una esclusiva valenza fonetica). In realtà questo appellativo è usato solo nel sud della Cina, mentre la corrispondenza Guǐ lǎo, non esiste nel cinese standard o mandarino. Nella lingua ufficiale si usa invece 外人 - wài rén, letteralmente Persona di fuori, oppure 陌生人 - mò shēng rén, che è un po' più scortese in verità e che vorrebbe dire Intruso (letteralmente Persona nata su un sentiero), mentre " lungo naso" 长鼻 - cháng bí, te lo dicono solo alle spalle (e chang, faccio notare si usa anche per la "grande" muraglia!). La cosa viene addolcita un po' aggiungendogli 王 - wáng, Re, 长鼻王, che significa quindi Re dal naso lungo, come dire: Sarà ben brutto ma è una persona importante e da rispettare, non si sa mai, magari è un cliente!


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martedì 24 settembre 2013

Recensioni: Lin Yu Tang - L'importanza di vivere.

Con questo si conclude la carrellata sulle letture estive. Come vi avevo preannunciato, dato che l'ho ritrovato, ho voluto mettere alla prova del tempo questo saggio epocale che in Italia tra i '50 e i '60 ebbe un successo straordinario. In realtà, L'importanza di vivere (seguito poco dopo da L'importanza di capire) è uscito in America nel 1937, quando non si sapeva ancora chi era Mao e si sentivano soltanto i prodromi della guerra che stava per arrivare ed è quindi di per sé interessante leggere questo saggio, in cui si hanno soltanto i sentori della tempesta che sta per cambiare il mondo. Il libro ebbe, come ho detto un enorme successo. Ai miei tempi lo leggevamo tutti e ne eravamo molto toccati. Ti apriva uno squarcio su un mondo nuovo, lontano e davvero diverso da quello che eravamo abituati a leggere e sicuramente mi deve avere influenzato parecchio. Un vero e proprio trattato di filosofia che attinge a piene mani dai testi classici cinesi dai quali trae molti brani e citazioni. Un libro sull'ottimismo, che, sulla traccia epicurea della nostra filosofia classica, pone come traguardo la ricerca della felicità, visto tra l'altro, che come impone la costituzione americana, ognuno ne ha insindacabilmente diritto e l'autore è sì cinese, ma decisamente anche americano come mentalità, avendo lì vissuto tutta la seconda parte della sua vita. Felicità che va ricercata in ogni aspetto della vita. Dal piacere che può dare l'arte, lo studio, l'amore, il viaggiare, il godere della natura, della casa, della capacità di pensare come di quella di poter fumare la pipa. O semplicemente di essere vestiti comodi. 

Deliziosa la parte con cui spiega come sia incredibile per un orientale giustificare l'uso del colletto o delle costrizioni della cintura e del gilet. Sul lavoro poi è lapidario, bisogna lavorare il meno possibile e soprattutto mai vivere per lavorare. Qui prende una cantonata clamorosa, prevedendo che la scienza e la tecnica libereranno sempre di più l'uomo da questa maledizione, lasciandogli sempre maggiore tempo libero. Chissà cosa direbbe oggi, dovendo constatare che i giovani invece sono costretti a lavorare sempre di più, compensati sempre di meno. Tuttavia il suo elogio dell'ozio è davvero godibile, così come la descrizione del piacere di prendere il thé con gli amici, niente di più lontano dal formalismo della cerimonia giapponese. Diciamo che rimane un libro molto interessante, al punto che ho deciso di trattenerlo qui sulla scrivania per cavarne di tanto in tanto spunto per qualche post sulla filosofia orientale, che comunque conferma un assioma fondamentale, per fare i filosofi con profitto, sia che si sia nati in Oriente che a Roma o nell'antica Grecia, bisogna avere un buon numero di schiavi o servi, chiamateli come volete, che lavorino al posto vostro lasciandovi il tempo e il piacere di filosofare e al fine godervi la vita. Mi sembra comunque che sia giusto sottolineare che per Lin Yu Tang, convincente filosofo, anche se deludente invece come romanziere, come ho avuto modo di sottolineare, il senso della vita e quindi l'importanza di vivere stia tutto nella capacità di apprezzare la vita stessa in ogni suo aspetto e condizione, che è già un buon punto di partenza e su cui alla fine concordo.

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lunedì 23 settembre 2013

La fine delle vacanze.

Beh, a questo punto bisogna dire le cose come stanno. La vacanza è finita. L'estate è finita. Finito il momento della giornata passata in spiaggia di cui vi ho già pienamente relazionato e ritorno a casa con tutto quello che segue. Bisogna che ve lo dica però. Questa vacanza, la parte dedicata ai monti e le lunghe giornate passate alla Rosa Rossa a discutere di filosofia e le altrettanto se non più lunghe giornata passate disteso sulla spiaggia ciottolosa del mare a elucubrare pensieri filosofici, mi ha sfiancato. Sono tornato alla base stanchissimo e penso che dovrò dedicare una porzione non piccola del mio tempo al riposo e a ritemprare lo spirito, iscrivermi all'UNI3 e ai corsi di Tai Ji, pensare all'organizzazione di un viaggio degno di questo nome nel lungo inverno (anche se per Lin Yu Tang di cui vi parlerò domani, un vero viaggiatore è colui che non sa dove sta andando) e tante altre piccole cosette che mi terranno impegnato nel periodo delle ferie autunnali. Poi c'è l'aggiornamento del blog, naturalmente, per il quale, come state avvertendo, nel leggere queste righe, sto cercando nuove idee. La preparazione di almeno due conferenze, l'uscita del nuovo libro. Insomma, ma quanto manca alle prossime vacanze?


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sabato 21 settembre 2013

1500



Ragazzi, per il blog, il mio blog, questo è un pezzo importante essendo il millecinquecentesimo post prodotto negli oltre cinque anni di vita, quasi trecento all’anno, né più né meno. D’accordo, non tutti sono stati memorabili per carità, lo so da solo; molti sono un po’ tirati giù tanto per dire la mia scemenza quotidiana, magari quel giorno lì avevo le paturnie e me lo fate notare, diminuendo commenti e visite, ma qualcuno di tanto in tanto, in particolari occasioni, vi assicuro che era davvero sentito e che ce l’ho messa tutta a cercare di farvi passare le mie emozioni o i miei pensieri. Certo, direte voi, hai fatto quello che potevi, non si può cavare sangue da una rapa e la qualità è quella che è, la botte darà sempre null’altro che il vino che contiene, ma io proseguo imperterrito, almeno fino a quando me ne rimane la voglia, comunque in questo spazio posso ancora dire la mia fin che mi pare, grazie anche a Google, che d’accordo, mi spia, legge quello che scrivo, sa quello che penso, le mie preferenze e le mie simpatie in fatto di acquisti, che è poi quello che conta oggi, e le passa ad Obama (a proposito, caro, un po’ mi hai deluso, eh, così lo sai anche tu direttamente vis à vis), ma che me lo permette di fare gratis. Ma lo sapete che ogni giorno ho un contatto fisso di 10 secondi da Mountain View – California, sempre uguale, sarà un ammiratore segreto? Ma, certo è che o sono ingenui o proprio sfacciati, basterebbe non segnalarmelo nelle statistiche e potrei sempre pensare che sono dicerie di complottisti. Ma dai che va bene lo stesso, anche se da un po’ mi hanno aggiunto delle loro pubblicità, senza chiedere eh, certo in fondo lo spazio è il loro. Va bene, da domani parto con i secondi 1500 post, ci vorranno almeno altri cinque anni, vediamo se ce la faccio e soprattutto vedremo se alla fine, rimarrete ancora con me, quasi tutti spero, senza che se ne perdano troppi per la strada.



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venerdì 20 settembre 2013

Trenini e soldatini.


 

Ci sono cose strane al mondo e non facili da spiegare. Alcune poi seguono regole contorte ma che si muovono sempre nella medesima direzione. C’era quello spiritosone che affermava, ad esempio che le tette le avevano inventate per i bambini, ma poi alla fine ci si divertivano soprattutto i papà. In effetto sono cose che succedono di frequente. Prendete per esempio il modellismo, di cui in questi giorni c’era una bella esposizione qui a Mentone  nel Palais de l’Europe. Davvero singolare che a passeggiare tra i molti banchi, ripieni fino all’inverosimile di soldatini di ogni specie, dimensione, arma ed epoca, modellini di auto, aerei, navi e treni, plastici di città fantasy con creature mostruose e ogni altra cosa che vi può venire in mente, non ho visto neanche un bambino. Eppure vi assicuro che c’era da rimanere incollati ai banchi per osservare da vicino, anche con apposite lenti in alcuni casi, tanto erano minuscole le opere esposte, una serie di oggetti che definire capolavori non è esagerato. Invece ecco una serie di personaggi di ogni età pencolare attorno, ammirando, commentando, facendo richieste del come, del quando e soprattutto del quanto. Vi assicuro che c’erano soldatini tanto minuscoli da guardarli con la lente, ussari prussiani, generali napoleonici, ulani con le lance in resta, truppe austriache ed inglesi, dipinti così perfettamente e minuziosamente, che potevi contar loro gli alamari o rimirar le medaglie appuntate sul petto ad una ad una. Aerei di ogni tipo, con i portelli semi aperti così che se ne potessero apprezzare i particolari interni fino alle cinture di sicurezza mollemente slacciate. 

Velieri maestosi, con la tolda ricoperta di minuti oggetti, botti, materiali, sartiame come malamente abbandonato e invece messo apposta con cura minuziosa che avrà necessitato di ore e ore di attento e paziente lavoro. Il capolavoro assoluto era in un banchetto il cui espositore presentava tutti mezzi bellici che parevano abbandonati alla incuria del tempo. Legno corroso e spezzato, lamierini contorti e rugginosi, reti consunte e ruote ormai sgonfie ed affondate in quello che pareva fango di palude. Davvero straordinari. Ma come mai gli uomini sono attirati da queste cose? Da piccolo non avevo mai desiderato il famigerato trenino elettrico. Appena ho avuto una figlia, mi sono precipitato comprarne uno, unico sodale in famiglia, mio suocero, con cui abbiamo concordato forma dimensioni, percorso delle rotaie e naturalmente numero e forma dei vagoni. La scatola troneggiava al posto d’onore sotto l’albero di Natale. Cercammo di finire in fretta e furia il pranzo natalizio con gran disdoro delle femmine di casa che come ovvio ci tenevano al menù approntato in giorni e giorni, per buttarci subito nel montaggio che durò quasi tutto il pomeriggio. Quando finalmente la locomotiva coi vagoncini al seguito cominciò a fare il suo mestiere, rimanemmo estatici a rimirarcela, quasi ci dimenticammo di chiamare mia figlia, che aveva seguito distrattamente di lontano tutto quell’armeggiare. Lo guardò per un attimo, poi se ne andò via subito, annoiata, verso la casa della Barbie.


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giovedì 19 settembre 2013

Vescovi e frati.


La Chapelle de la Madone.

Ma certo, se vai a guardare a fondo, trovi sempre qualcosa in comune tra due luoghi. Alessandria e Mentone, niente di più lontano, a prima vista, specialmente se guardate al clima, ma sotto sotto, grattando nei particolari, qualche cosa ve lo trovo che li accomuni e naturalmente lascio da parte i pensionati, spiaggiati sulla Côte e a commentare i buchi nella strade (adesso che di cantieri non c’è più l’ombra) nella città di Gagliaudo. Infatti proprio lì ho scoperto l’altro giorno, seguendo una gentile signorina, dalla voce roca e sensuale come solo le francesi hanno (ricordo un tale che chiamava sempre una ditta fornitrice francese solo per sentire la voce della telefonista), che illustrava le particolarità del quartiere di Carnolès, nell’ambito delle Journées Européennes du Patrimoine, la vita e soprattutto i miracoli di tal Fra Schiavone, che dopo aver peregrinato per mezza Europa, nel 1400, si fermò proprio a Mentone a godere del clima e dei limoni, con la scusa di evangelizzare gli autoctoni, chiamalo stupido. 

La sua vita, tesa, con una certa burbanza a portare sulla retta via i locali, con le prediche e con l’esempio, è in perfetta sintonia col nostro San Baudolino, vescovo di maniere brusche, che non stava tanto a raccontar la favola del lupo (se mai la raccontava al lupo, come risulta dalle cronache), quanto a maltrattar potenti e donnicciole dubitose e peccatrici. Infatti il suo miracolo più noto, che certamente lo descrive come personaggio, non è certo qualcosa come ridar la vista ai ciechi o resuscitare i morti, ma quello di convincere l’imperatore che il nipote adorato, sul punto di tirarle cuoia anzitempo, doveva morire comunque perché quello era il suo destino, che si mettesse il cuore in pace in quanto non c’era più niente da fare, stesse tranquillo e la smettesse di minacciare sfracelli per un evento naturale a cui il buon cristiano non si deve opporre. 

L’Imperatore bizzoso, se ne fece una ragione e proprio in questo sta il miracolo, calmarne l’ira funesta e dannosa di certo al contado locale che gliene fu assai grato. Bene, il nostro buon Fra Schiavone, a sua volta, predicatore di facile parola che attirava folle sterminate, anche se nervosetto, perché questa attività lo strappava alle sue meditazioni di anacoreta che amava camminare nel magnifico agrumeto, oggi giardino del Palais de Carnolés, andando avanti e indietro in preghiera dalla torre di Saint Ambroise alla Cappella de la Madone, faceva anch’egli miracoli di questo tipo. Il più classico infatti lo vede in attività davanti ad un gruppo di penitenti che, fiduciosi dei suoi poteri taumaturgici, gli avevano portato una vecchia (pensionata appena arrivata pare da Mediolanum) che non poteva camminare, se non faticosamente con un paio di scomode grucce. Alla classica frase del frate, che non aveva molto tempo da perdere, già che lo chiamavano in cappella per l’Angelus: Se hai fede in me, alzati, getta la stampella e cammina, la vecchia lo motteggiò facendosi besse della sua sicurezza e dicendo: Ma neanche per sogno, che se mollo la gruccia cado lunga distesa e mi rompo il femore. 

Il buon frate allora andò su tutte le furie, non per nulla era anche grande inquisitore e la mandò subitaneamente al diavolo dicendole: Se non hai fiducia, continua a camminare con le stampelle per il resto dei tuoi giorni. L’anziana, compreso il suo difetto di fede, passò il resto della sua vita pregando per il suo peccato invece di darsi al burraco e probabilmente salvandosi in questo modo l’anima. E questo fu il miracolo. Vedete dunque la similitudine quantomeno nello stile col nostro beneamato Vescovo e protettore cittadino; quantunque al mondo non vi sia giustizia, perché il nostro, che doveva avere appoggi non da poco in Vaticano, forse proprio per i suoi contrasti con l’Imperatore, non solo diventò Vescovo ma poi anche Santo, da misero anacoreta che era, mentre il povero Fra Schiavone, frate minore e già per questo meno considerato,  pur avendo prodotto miracoli di tal fatta e anche se morto in odore di santità, così almeno dicevano i confratelli che non riuscivano a stargli vicino, non fu mai beatificato. La scusa addotta fu che quando la causa si discusse, circa duecento anni dopo la sua morte, non si trovò più nessun testimone diretto dei miracoli stessi, come prevede del resto il diritto canonico. Diciamo che era caduto in prescrizione.

La Tour Saint Amboise

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mercoledì 18 settembre 2013

Belle Epoque a Mentone.

L'Hotel Alexandra - Mentone

Mentone ha avuto una storia strana, in pratica è stata condannata dalla sua miracolosa posizione geografica a vivere di turismo estero. Lasciamo stare la storia recente in cui, essendo ormai da tempo Francia a tutti gli effetti, ha subito l’invasione dei pensionati padani, che avendo cullato per tutta la vita il sogno dei poveri, quello di avere un bilocale in Liguria, non appena hanno messo le grinfie su quei quattro soldi di liquidazione, si sono accorti che i Liguri, non li lasciavano neanche entrare nell’agenzia immobiliare, mentre appena passato il confine, facevano loro ponti d’oro e non gli facevano neanche pagare la spiaggia. Sono quindi state immediatamente rase al suolo ville e case precedenti per fare spazio ad una adeguata serie di condomini da dare in pasto ai futuri leghisti. Ma come mai c’erano già tutte queste meravigliose ville e villette fin de siècle da abbattere? Perché da tempo si sapeva che la zona fruiva di un microclima strepitoso, in pratica, il più temperato della Francia, tanto che prosperava la coltura dell’agrume di ogni tipo e foggia. 

Una turista all'ingresso dell'Hotel
Quindi da quasi due secoli, i medici di tutta Europa avevano sparso la voce che questo era il posto adatto per la cura del mal sottile, che mieteva vittime alla grande, specie tra coloro che avevano il grano. Praticamente, da come si era sparsa la voce arrivavano a frotte, inglesi, nordeuropei in genere e russi in particolare, tutti nobili, alti borghesi e danarosi di ogni specie, tubercolotici di ogni risma e paese, purché ricchi. E’ ovvio che come spesso capita i medici non avevano capito nulla e il clima di questa parte del sud della Francia, assai umido in verità, li faceva morire come le mosche, come si può ben vedere nel cimitero, bellissimo che sovrasta la città vecchia, ma loro continuavano a venire in massa, quindi bisognava predisporre per l’invasione. I più ricchi e malati si facevano la villa, ce ne erano più di 150, di queste ville belle epoque, una più bella dell’altra e con parchi favolosi, perché la famigerata umidità, esiziale per la tisi era una man santa invece  per tutta la flora soprattutto esotica che cominciò a popolare la zona, naturalmente estirpando senza pietà i magnifici agrumeti di cui il paese era famoso e quindi giù palme come se piovesse. 

L'Hotel Imperial - Menton.
Per tutti gli altri cominciarono a sorgere degli enormi alberghi, ciascuno con centinaia di camere dove i curandi stavano quasi sei mesi all’anno, sempre che non se ne andassero prima all’altro mondo. Ce n’erano più di 50, posizionati vista mare su tutta la collina, in modo che l’aria spirasse sempre per portare via i microbi. Furono costruiti con ogni dovizia di particolari di lusso, secondo lo stile che imperava a Brighton, culla del turismo di oltremanica, che insegnava a tutti questo nuovo bisogno. Palazzi bellissimi dove si giocava, si faceva sport, tennis, croquet e si passeggiava negli splendidi parchi, popolati di bella gente malatissima, fino agli anni 40. Poi dopo la guerra si capì che quell’epoca era finita e stava arrivando l’orda dei pensionati padani. Niente paura, certo cambia un po’ lo stile e invece dei principi russi che perdevano con nonchallanche una fortuna al tavolo della roulette in una notte, ci si sarebbe dovuti adattare a massaie depassé disponibili solo a giocarsi una mezza pensione alle slot, invece di contessine inglesi emaciate che passeggiavano sul lungomare sospirando sotto i pini marittimi, ci sarebbero stati panzuti anziani col cane a camminare tra le palme senza neanche la paletta per raccoglierne le cacche, ma tanto è, bisognava far di necessità virtù e in un decennio tutti i grandi e prestigiosi alberghi che avevano ospitato la nobiltà mitteleuropea furono trasformati in condomini, le camere in studiò e le suites in bilocalini economici. 

I grandi saloni furono tramezzati alla meglio e le fastose sales à manger trasformate in sale condominiali. Solo due sono rimasti a far la loro funzione d’albergo, il Balmoral e un altro mi pare, che stranamente erano stati costruiti pieds dans l’eau, contrariamente ai dettami medici ma come piace tanto ai turisti moderni. Ma quando capita, come in questi giorni che venga data la possibilità di entrare in queste che ora sono proprietà private per ammirarne i giardini e quel che rimane ancora dei grandi scaloni e degli ambienti comuni, non perdetevi l’occasione. Oggi ho visto l’ex Hotel Alexandra, nel quartiere cosiddetto “dei Russi” e l’Imperial, di cui ricorre il centenario della costruzione. Una emozione incredibile. Un tuffo nel passato che, mentre scorri lo sguardo su stucchi ai soffitti, grandi lampadari, marmi su scale a ferro di cavallo, mentre percorri i vialetti tra le palme centenarie ed i ficus maestosi, ti mette un po’ di vergogna per le tue ciabatte malconce, gli short e la maglietta sudata, quasi in quel momento passasse rasente al muro la contessina Demirov con la dama di compagnia a guisa di chaperon, che ti guarda severa, mentre lei soffoca con un fazzoletto di trina, un leggero colpo di tosse o la figura curva del visconte Hoffenbaker che rientra, appoggiandosi al bastone da passeggio in avorio, dopo una notte disastrosa al tavolo del baccarat. Sic transit gloria mundi e date un'occhiata al menù di cento anni fa!

Il menu dell'inaugurazione dell'Hotel Imperial - Menton - Marzo 1913

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martedì 17 settembre 2013

Recensione: P. Buck - L'amore di Ai Uan.

Questo, a mio parere è uno dei più interessanti libri della Buck, non tanto per la storia in sé, che contiene i temi caratteristici a cui l’autrice ci ha abituato, ma per il fatto che l’opera è del 1939, proprio prima dello scoppio del conflitto mondiale e le considerazioni su quanto sta accadendo in Oriente in quel periodo, sono oltremodo stimolanti, per noi che sappiamo quello che è successo dopo. La descrizione puntuale e precisa dei sentimenti e dei punti di vista dei diversi personaggi, assumono una luce del tutto premonitrice, che ci permette di apprezzare quanto la scrittrice, che aveva una visione a largo raggio del mondo di allora, avendo vissuto tanti anni in Cina, potesse rendersi conto di quando ribolliva nell’aria e delle terribili conseguenze che potevano accadere. Ai Uan è un giovane cinese, figlio di un ricco banchiere, che negli anni 20 rimane affascinato dai venti rivoluzionari che sconvolgono la Cina. Nel pieno della guerra civile, quando l’azione di Chan Kai Shek si rivela ben diversa da quanto il movimento degli studenti credeva, viene fatto fuggire per salvarsi la vita, dal padre, che lo manda in Giappone da un suo referente. Qui comincia la seconda vita di Ai Uan che si innamora della figlia del suo ospite e la sposa. 

Ma quando negli anni 30, comincia l’invasione giapponese della Cina, inizia il dramma per Ai Uan, troppo cinese per il Giappone e forse ormai troppo giapponese per la Cina, dove comunque ritorna per difendere il suo paese. Il dramma della guerra non voluta, della violenza e della morte, la divisione dagli affetti e il non poter capire come la gente non riesca ad avere la reale percezione dei fatti diventano l’ossessione di Ai Uan. Di fronte a violenze, corruzione e inganni, si sente bene come la ingenua purezza dei pensieri rivoluzionari avrà alla lunga la supremazia, ma non nel modo sereno e costruttivo in cui la intende la Buck. Ai Uan (e la Buck ovviamente) sentono che questo inevitabilmente avverrà e  ahimè, entrambi si illudono che questa sarà una futura era di pace, di libertà e prosperità, mentre in Giappone la mentalità del popolo improntata alla cieca obbedienza sta conducendo il paese verso la guerra totale. Ai Uan spera che, quanto prima il conflitto tra i due paesi termini con una riconciliazione, per potersi ricongiungere con l’amata famiglia, che vive, per una tragica combinazione certamente premonitrice della Buck, proprio a Nagasaki.


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lunedì 16 settembre 2013

Cocteau à Menton.

Cocteau à Menton
Quest’anno cade il cinquantenario della morte di Jean Cocteau e se vi capita di passare da Mentone, vale la pena di dare un’occhiata al museo a lui dedicato dalla città che lo scrittore, pittore e cineasta ha tanto amato, lasciando traccia notevole del suo passaggio. Oltre alle molte opere lasciate dall’artista nel bastione sul porto, tra le quali la famosa serie degli Innamorati, il nuovo museo, opera di Ricciotti, ospita da qualche anno una delle più complete collezioni tematiche su Cocteau regalate alla città dal collezionista Wunderman. Si tratta di oltre 1800 pezzi, esposti a rotazione, tra quadri, disegni, sculture, manifesti, la maggior parte dello stesso Cocteau, ma molte altre di artisti a lui vicini, da Picasso, a Modigliani, a Bérnard, con una serie di splendidi disegni dedicati a Sarah Bernhardt, musa del poeta. E’ possibile inoltre visionare i suoi film famosi da Les infants terribiles, a Le testament d’Orphée. Una vasta testimonianza fotografica dei momenti più importanti della vita artistica di Cocteau completa la collezione, che a mio parere vale la pena di guardare con calma. Poi, appena usciti, uno può sempre andare a fare il bagno sulla spiaggetta di fronte.




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sabato 14 settembre 2013

Recensione: Lin Yu Tang - Juniper Loa

Lin Yu Tang è stato notissimo, in Italia, negli anni ’60, quando un suo saggio filosofico L’importanza di vivere, spopolò nella nostra generazione quasi come Il giovane Holden. Tutti lo leggevamo e ne eravamo affascinati e può essere che il mio interesse per l’oriente e la sua cultura sia venuto anche da lì. Saggista prolifico, fece conoscere la Cina e la sua cultura in un periodo in cui le sirene maoiste imperversavano e questa voce discordante era di certo di grande interesse. Mi è capitato in mano questo  suo lavoro, tutt’affatto diverso dalle sue opere saggistiche più conosciute. Si tratta infatti di un romanzo che racconta una lacrimosa e romantica storia, il cui tema centrale sono le vicende di una famiglia cinese trapiantata a Singapore nel periodo della guerra civile dei primi decenni del secolo scorso. Pieno di note autobiografiche, l’autore infatti visse a Singapore per diversi anni, direi che il romanzo è una vera delusione, una vicenda alla Harmony, fumettosa e stereotipata che davvero non aggiunge niente al lavoro del filosofo. Comunque dato che sono passati 50 anni, nei prossimi giorni voglio riprendere in mano quel volume famoso e vedere cosa mi suggerisce dopo tanto tempo. Vi farò sapere, per intanto per questo Juniper Loa, direi che potete lasciar perdere.


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venerdì 13 settembre 2013

Recensione: Kawabata - Mille gru.

E' un po' l'estate, per me, del rispolvero dei Nobel e devo dire, molto interessante questo autore, primo giapponese Nobel per la letteratura, che ha scritto molto nella prima metà del secolo scorso. Uno stile conciso ed essenziale, si potrebbe definire minimalista, per raccontare questa storia semplice e concisa, Mille gru, dal nome che indica un disegno tradizionale delle stoffe giapponesi, quasi un Haiku in prosa, dove ogni descrizione minimal è un richiamo a un fiore, a una stagione, a uno stilema orientale perfetto. Par quasi di scorrere un rotolo di pitture o un libro delle brevi poesie di Basho. Tra i suoi temi, è sempre costantemente presente il concetto di bellezza, spesso riferito ad oggetti e situazioni o ai classici dell’estetica giapponese, l’ikebana, i bonsai, le pitture. All’interno del racconto, poi, ci sono tutti gli ingredienti classici dei sentimenti forti del Sol Levante. I suoi personaggi sono pallidi ed inquieti, ma mai vitali e prorompenti come quelli del suo amico Mishima, del quale seguì la via del suicidio, dopo una serie di depressioni devastanti, proprie di molti giapponesi tradizionalisti dopo la fine della guerra. 

Costantemente presente è inoltre un erotismo sempre legato alla morte ed alla sofferenza, con la continua impossibilità di unirsi all’oggetto del proprio desiderio. Un sottile intricarsi di obblighi a cui non ci si può sottrarre ed a cui la infinita serie di sottintesi, di cortesie e di movimenti stereotipati, ti costringono come in una gabbia virtuale da cui non si può uscire. Tutti temi presenti in questo romanzo breve, Mille gru, dove i personaggi scivolano verso il loro destino in un continuo intrecciarsi di vita, di desiderio e di morte. Sullo sfondo, cornice in cui si inquadra tutto, la cerimonia del thé, simulacro perfetto della vita giapponese, carica di un estetismo esangue e perfetto da lasciare incantati e affascinati al tempo stesso, dai movimenti stereotipati, ai bellissimi ed antichi oggetti necessari. Uno scrittore definito neoimpressionista, che a mio parere vale la pena di conoscere, per fare un tentativo di comprendere culture ed estetiche così lontane dal nostro sentire.


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