Estancia Mitre - Patagonia argentina - novembre 2024 |
Seduti sulle panchine fuori dal centro di accoglienza, masticando un panino, aspettiamo Maria che ci venga a prendere, dopo che abbiamo completato il giro delle passerelle. Nelle orecchie ancora gli scricchiolii della lingua di ghiaccio ed i boati poderosi, a tratti decisamente spaventosi della massa che si stacca dal fronte e precipita nel lago. Una straordinaria sensazione che misura la potenza della natura di fronte alla quale inevitabilmente ti senti piccolo e impotente, sarà pure una frase fatta ma è quello che si avverte stando di fronte a questo spettacolo in cinemascope come si diceva quando ero ragazzo o a tutto schermo come si preferisce adesso; se poi attorno volteggiano i condor con le loro planate perfette ed imperscrutabili, il senso di questa Patagonia non potrebbe essere più preciso ed identitario. E' un animale misterioso il condor. Non senti il suo verso, chissà quale sia, non alza rumori nel suo movimento, non avverti il suo volo. Eppure è un animale imponente che non si nasconde, diciamo che vuole anzi pretende il suo posto nel mondo e te lo chiarisce con il suo volo quasi minaccioso. E' uno dei tanti spettacoli della natura che questo luogo ti propone e che non lascia di certo indifferenti.
Saliamo allora sull'auto con animo leggero, la giornata è diventata bellissima e sole splende alto nel cielo; percorriamo la strada all'interno del parco lungo la parte meridionale del cosiddetto Brazo Rico, quella parte di lago che quando si forma la diga di ghiaccio, si gonfia di acqua in maniera abnorme e che si risolve in maniera devastante quando la diga d'un tratto, improvvisamente si rompe provocando un'onda anomala che si riversa di colpo nel lago Argentino e precipitandosi come uno tsunami sulla sponda opposta e sul territorio stepposo e sulla adiacente mata patagonica. Il terreno ondulato si alza verso le montagne ancora innevate. Lontano vedi qualche animale sparso, qualche pecora, qualche bovino e soprattutto gruppi di guanachi che brucano la scarsa erba. Qui tutti i pascoli sono ricoperti da una fine erba rossa che conferisce al paesaggio una tonalità rosata assolutamente particolare. E' un tipo locale di Rumex acetosella che qui chiamano vinegillo o così almeno mi sembra. Noi intanto prendiamo una pista lateralem mentre ci attraversano la strada di corsa due piccoli animali in fuga disperata su lunghe zampe allampanate.
Sono due choique, o Nandù di Darwin (Rea pennata) una variante di piccola taglia del nandu patagonico Rea americana, il grande uccello corridore simile allo struzzo che i gauchos inseguono a cavallo e catturano lanciando le Bolas, le tre palle di pietra legate da corregge, che roteano nell'aria prima di agganciarsi alle zampe dell'animale facendolo cadere a terra. I choique, come i loro fratelli maggiori, vivono in questa steppa infinita cibandosi gli insetti di piccoli semi. Questi due sono spaventatissimi e anche se scendo di corsa per cercare di fotografarli, scappano velocissimi nascondendosi dietro i cespi di erba alta e scomparendo definitivmente alla vista come fantasmi impauriti. Noi dopo qualche chilometro arriviamo alla estancia Mitre, una delle tante qua attorno che accolgono i turisti e vivono di loro più che della terra che li circonda. Ci accoglie un personaggio che rappresenta decisamente la cultura locale, un anziano con un grande basco nero in testa di traverso, che è il proprietario dell'azienda, che ci descrive subito come una delle più piccole della zona, capirete bene, si tratta solamente di 12.000 ettari, mentre quella di fronte che occupa quasi tutta la montagna della parte nord del brazo rico ne dispone di ben 100.000 ed è di proprietà di una famiglia che arriva da Bergamo.
La sua gente invece è arrivata in zona nel 1924 e si è dedicata subito all'allevamento delle pecore ma da quando c'è stato il crollo del prezzo del mercato della lana, hanno dovuto riciclarsi facendo diventare l'azienda una sorta di agriturismo che accoglie i visitatori e fa loro provare la vita degli allevatori sud della Patagonia. nella costruzione principale c'è una grande sala comune che fa da bar e ristorante e sopra qualche camera. Suo genero intanto è andato verso il recinto del bestiame a cercare un agnello da abbattere per la cena di stasera. Da buon agronomo in gita mi faccio raccontare dal tizio un po' del movimento agricolo della zona e lui morde immediatamente, non appena sente che parliamo la stessa lingua. Partono così le classiche lamentele dei contadini di tutto il mondo sul tempo che non è più quello di una volta, dei prezzi che non compensano i sacrifici e delle difficoltà che in quel mondo certamente sono più elevate che altrove. Poi mi racconta dell'ultima volta che il lago era cresciuto di quasi trenta metri ed aveva allagato quasi tutti i pascoli arrivando alle case e di quando la diga aveva ceduto trascinando via tutto, di certo deve essere stata un'esperienza forte.
Nella sala ci sono anche altri ospiti che stanno giocando ad una specie di tiro con le freccette contro un bersaglio appeso al muro; di certo si fermeranno qui a dormire ed il brasato di agnello sarà il piatto forte preparato per loro a cena. A fianco della costruzione principale c'è un piccolo ma interessantissimo museo intitolato ad un certo Mario Echevarria Baleta uno di quelli che era arrivato qui all'inizio del secolo scorso e che vado a vedere con interesse visto che porta lo stesso nome del famoso bar alessandrino con il quale tuttavia non aveva niente a che fare e il cui ritratto somiglia tra l'altro non poco al nostro concittadino. Il museo raccoglie strumenti agricoli antichi e altri tipici dell'allevamento patagonico, come vecchie bolas per la caccia e ferri per la marchiatura; poi fossili e animali impagliati e soprattutto una ricchissima documentazione iconografica con fotografie d'epoca che riguardano soprattutto le tribù degli antichi abitanti della zona i Tehuelches, già citati da Pigafetta nel suo diario, alcuni dei quali vivono ancora in un villaggio che sorge non lontano da qui e che il nostro amico definisce bravissima gente ma che preferisce starsene in disparte e non venire contattata. In realtà si tratterebbe soprattutto di sanguemisti con la popolazione venuta in seguito.
Sarebbe interessante andava a dare un'occhiata, credo ma non sembra una opzione praticabile al momento purtroppo. L'ultima sala infine contiene anche una bella riproduzione di una capanna originale delle tribù originarie del posto, costruita con pelli di animali. Infine andiamo a fare un giro intorno per vedere gli animali che brucano nel pascolo lontano. Poco più in là, una piccola costruzione contiene la dispensa ed il magazzino dell'azienda. Qui sono conservate con cura le provviste per il lungo inverno, marmellate, conserve e naturalmente bottiglie di vino e carne essiccata; in mezzo fa bella mostra di sé la carcassa di un ovino scuoiato ed evidentemente pronto per la frollatura. Facciamo ancora un giro intorno prima di rientrare nel bar dove ci mangiamo una bella fetta di torta fatta in casa, mentre un agnellino lanoso ci fa le feste come fosse un belante cane da guardia, facendosi accarezzare come un cucciolotto. Alle pareti vengono esibite tutta una serie di bandiere che rappresentano stati inesistenti e sedicenti indipendenti, per lo meno quelli che vorrebbero esserlo stati ma non ci sono riusciti. Tra questi una curiosità interessante.
Infatti fa bella mostra di sé anche la bandiera dello stato del regno della Patagonia, dietro alla quale c'è una storia decisamente particolare di cui parla a lungo Chatwin nel suo libro. Noto come il "Regno di Arucania e Patagonia", questo progetto ambizioso risale alla metà del XIX secolo, quando un avventuriero francese di nome Orelie Antoine de Tounens cercò di stabilire un insediamento autonomo nella regione della Patagonia, che all'epoca era poco popolata e poco esplorata, con le tribù indigene che si opponevano alle mire di conquista del Cile. Questo personaggio bizzarro ed i suoi sostenitori immaginarono di fondare un regno indipendente, attratti dalla bellezza naturale e dalle risorse della zona. Tuttavia, il progetto si scontrò con diverse difficoltà, tra cui la mancanza di supporto politico, le sfide logistiche e le tensioni con le stesse popolazioni locali. Infatti, dopo la proclamazione del regno che comprendeva vaste parti del territorio patagonico, sia argentino che cileno, naturalmente non fu conosciuto da nessuno stato del mondo. Alla fine Tounens fu proclamato re dalle locali tribù mapuche che pensavano che con un europeo a capo le loro pretese di indipendenza fossero accolte più facilmente., ma la manfrina durò un paio d'anni, poi il governo cileno la prese a male e l'autonominato re fu subito catturato, condannato e infine era chiuso il manicomio da dove riuscì ad evadere qualche anno dopo.
Tounens andò allora in Europa in cerca di finanziatori che sostenessero la sua idea e nel 1869 tornò in Patagonia ma trovò che il suo regno era stato incorporato nella Repubblica cilena e per sfuggire alla cattura andò a Buenos Aires in cerca di sostenitori, dove morì qualche anno dopo. Essendo morto senza arredi un suo amico cercò di prendere il suo posto con il nome di Achille I, tentando di avere l'appoggio degli Stati Uniti che non lo presero naturalmente neppure in considerazione. Così finì ingloriosamente la storia del regno di Araucaria e Patagonia Anche se ancora oggi un suo discendente, tale Filippo vive ancora in Francia e pur senza reclamare il regno, mantiene viva la storia di questa strana avventura, fatta di balordi in cerca di fortuna che si aggiravano nell'Ottocento per questi mondi senza regole. Rimane comunque una storia affascinante che riflette l'epoca delle esplorazioni e delle aspirazioni coloniali e le complessità delle interazioni tra colonizzatori e popolazioni indigene. Per chi fosse rimasto colpito da questa avventura vi rimando al libro di Chatwin che la racconta nei dettagli. Noi intanto che la gloriosa bandiera del regno che non c'è, rimane orgogliosamente appesa al muro tra la Catalogna ed i Paesi Baschi, finiamo di berci il nostro mate e paghiamo quanto abbiamo consumato prima di andarcene.
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