giovedì 31 ottobre 2013

Ristorante o pizzeria?

Come vi dicevo ieri, questa stagione non ha uguali per scivolare tra valli e colline e godere di un paesaggio unico, scegliendo la cultura e la bellezza come denominatore unico. Il problema è che anche la cultura è fatica e le calorie vanno come se fossero divorate da un termitaio nel tronco del baobab. Anche il corpo oltre alla mente dunque, abbisogna di carburante ed è giocoforza trovare un distributore a cui rifornirsi. Qui si apre un discorso che va fatto. Non riesco a capire come mai da noi le pizzerie in generale, che si spacciano per ristoranti a basso costo, forniscono quasi sempre un servizio più scarso (o per lo meno abborracciato), cibi qualitativamente inferiori e ambienti dozzinali ad un prezzo proporzionalmente molto superiore ai ristoranti di qualità. Vi faccio un esempio. La settimana scorsa sono stato in una normopizzeria alessandrina, dove tra rumore, TV e puzza di fritto, ho mangiato un primo, una birra e un dolcino industriale (la solita crema catalana) per un bel 17,50 Euro, ovviamente, essendo la ricevuta è oggetto sconosciuto e facendomi largo tra una folla di clienti. L'altro ieri invece, col piede gonfio per le visite, abbiamo scelto il ristorante Il Moro, via Mameli 11 - Asti, nel cuore del centro storico.  

Un localino piccolo e piuttosto elegante con tavoli ben preparati che, sia pure con un menù concordato, ci ha servito un classico e delizioso flan di verdure con gustosa fonduta che lo ricopriva ricca e avvolgente, seguito da un pasticcio di funghi porcini, corposo e assolutamente di sostanza. Dopo un bis non rifiutabile, è seguita una specialità del locale, il classico risotto allo champagne, mentre come secondo abbiamo avuto uno stinco di vitello al forno e patate di rara morbidezza e ghiottosità. Al finale uno strudelino fragrante ricoperto di zabajone tiepido al Brachetto d'Acqui che ti ampliava il sorriso e il desiderio di perdonare il mondo per le sue malefatte. Caffé e un buon barbera d'Asti per tutto il pasto, uniti alle coccole dei gestori, hanno completato l'opera costata 25 eurini. Allora c'è proporzione con quanto raccontato all'inizio? A me non sembra, eppure le pizzerie son sempre piene. Tenete conto (tanto per sottolineare il livello del ristorante) che con un sovrapprezzo di 20 euro, ci passavano di fianco piatti di albese e tagliatelle letteralmente ricoperti di tartufo, che una tantum si potrebbe anche fare, visto che siamo nati per soffrire. Comunque questi sono i fatti, poi decidete voi.


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mercoledì 30 ottobre 2013

Asti. Vigne e antichità.

Le Cattedrali sotterranee della Ditta Bosca. - Canelli.



Il museo dello zucchero FPP - Nizza M.to.
Ti intristisce la novembrina uggia umidiccia e grigia? Ma dai, questo è il momento giusto, inforca la macchina e vai in giro per le colline del basso Piemonte. Anche se la visibilità è poca, anche se il mattino tarda a rischiarare e la sera arriva in un attimo, sempre troppo presto, non ti curare, i colori dei rari boschi, i rossi e gialli dei filari di vite a cavalcapoggio delle colline basse e le piante a giropoggio di quelle più scoscese ti faranno subito innamorare se non ci sei avvezzo, ti riscalderanno a lungo se le ritrovi da vecchio amico che sa dove ritrovar compagnia. Su e giù per queste colline mai ti sazi di colori e di profumi di terra, in questa stagione così forti, intensi, pieni. Le cantine ormai esternamente ferme, ma ricolme del materiale prezioso, che quest'anno dovrebbe dar frutto di gran qualità, paiono avvolte da calma ingannevole, mentre le loro viscere ribollono di lavorar di lieviti. Se vuoi hai solo la difficile scelta di decidere quale visitare. Il museo delle cantine Bosca a Canelli ti potrà stupire con quel suo abbinare l'arte della spumantizzazione, imparata sì dai francesi, ma ormai portata qui ai massimi livelli, grazie alla materia straordinaria che vi cresce, alla maestosità quasi sacrale del luogo. Non per nella queste cantine, di cui il sottosuolo della cittadina è pieno, forse più estesa è la Canelli sotterranea di quella epigea, son chiamate cattedrali ed aspirano con buona ragione a diventare patrimonio dell'umanità. 

La chiesetta romanica di Viatosto. - Asti
Qui senti storie antiche di fatiche, ma anche di intelligenza che ricerca il miglioramento tecnologico, quello che porta davvero all'eccellenza e che spesso si confonde con la fasulla nostalgia del passato, inutile e fuorviante. Potrai assaggiare e poi naturalmente è probabile che tu te ne venga via con un cartone sotto il braccio, perché dispiace lasciar lì tutta quella delizia. I panorami non ti bastano, non ti sazia far girare lo sguardo sui colori da far invidia ad un foliage degno del New England? Sei un amante delle curiosità? Spingiti allora fino alla periferia di Nizza ed ecco per gli amanti dei nuovi collezionismi, il piccolo Museo delle bustine di zucchero, organizzato dalla Figli di Pinin Pero, una delle aziende più importanti di questo settore. Meglio di una esposizione di francobolli, condita anche dalla storia e dalle curiosità legate alla produzione dello zucchero. E se le colline non ti hanno dato la pienezza dei sensi ecco Asti, una città sottovalutata, certo rilanciata dal Palio, ma che non è soltanto vino e squisitezzea alimentari (buttale via), ma anche una serie di palazzi e parti storiche di notevole importanza. Intanto non perdetevi (non si sa per quanto tempo si potrà ancora goderne) una visita all'Arazzeria Scassa, dove si può ancora apprezzare il lavoro dell'arazzo, forse uno degli ultimi esempi disponibili in Italia. 

Il museo dlel'arazzeria Scassa - Asti
Rimarrete incantati dall'esposizione dei lavori fatti su cartoni dei più grandi artisti moderni, da De Chirico, a Kandinsky, a Klee, senza perdere d'occhio i colori del magnifico giardino. Poi scendi in città e ti basterà partire dal Duomo che ti incanta già dall'esterno romanico che si muta in gotico, ricoperto dalla bicromia tipicamente astigiana dell'arenaria grigia alternata al rosso del mattone e che poi subito ti stravolge appena varcato l'ingresso con la sua rivoluzione barocca che ricopre le altissime colonne di volute e tralci e le vele dei soffitti di dipinti immaginifici. Parte del fascino è anche data dalla trasandata sensazione di disfacimento che l'umidità incontrollata ed incontrollabile, aggredisce il basso delle pareti, tutto avvolgendo  in un tentativo di corrodere, tara pervasiva dell'umano sentire, quando inutilmente tenta di accedere al divino. Vi lascerei passeggiare a lungo nel delizioso centro storico, ma vi prego non perdetevi almeno gli interni della Collegiata, qui severa all'interno come all'esterno, del Battistero di S. Pietro, così antico e monacale nel suo aspetto scevro d'orpello e della Cripta di Sant'Anastasio, un vero piccolo tesoro nascosto nelle viscere del centro della città, ringraziando naturalmente Piera (a cui vi consiglio di rivolgervi se volete avere una spiegazione puntuale e competente su ogni cosa). Nutrire la mente è sempre un dovere oltre che un piacere, ma non dimenticatevi anche del corpo, ma di questo  magari vi parlerò domani.

Il chiostro di S. Pietro - Asti

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lunedì 28 ottobre 2013

L'orto di papà.

dal web

Mio padre aveva un orto. Piuttosto grande anche. Quasi tutti i giorni inforcava la bicicletta e si faceva i cinque chilometri per arrivare in Valle San Bartolomeo e coltivarselo. Non aveva nessun attrezzo se non vanga e zappa e anche per bagnare doveva ricorrere al trasporto dell'acqua coi secchi dal pozzo vicino, per cui faceva davvero una fatica boia. Poi, passata la mattinata se ne tornava a casa pedalando lentamente con le borse cariche. Spesso allungava il giro e passava da me per lasciare i pomodori più rossi, gli zucchini più belli, i fagiolini che apparivano subito come i più gustosi. Era la sua grande soddisfazione, far crescere cose, coglierle mature al punto giusto e portarle a casa. Siccome non voleva acquistare concimi, non avrebbe potuto portarseli in bicicletta fino all'orto, usufruiva solo di tanto in tanto di un po' di letame che gli faceva avere un vicino, ma la quantità era insufficiente e non bastava neppure come ammendante, così la produzione era piuttosto scarsa. Non usava neanche antiparassitari, non aveva neanche la macchia per distribuirli, salvo una vecchia pompa a spalla per il solfato di rame. Per il diserbo usava la zappa e le dorifere delle patate le raccoglieva con le mani schiacciandole poi dentro una latta con una pietra, con grande soddisfazione. Così possiamo dire che le sue erano coltivazioni assolutamente "biologiche". Naturalmente  il fatto che tutti e lui in particolare, trovassimo quei prodotti buonissimi, derivava, oltre al fatto psicologico del piacere con cui venivano fatti, soprattutto dal motivo che fossero raccolti al punto giusto di maturazione stagionale. Per il resto erano spesso mezzi marci e colpiti da ogni genere di malanno che colpisce le piante coltivate, "naturalmente" molto più deboli di quelle spontanee e soggette ad ogni genere di attacco parassitario. 

La cosa più valida erano le sementi che procuravo io, in quanto faceva parte allora del mio lavoro, tutta roba di prima qualità. Lui si lamentava molto per le patate che producevano poco e venivano sempre piccoline, un po' per la siccità, un po' per le dorifore che attaccavano sempre in massa durante l'estate, quando faceva più caldo ed era faticoso andarle a togliere a mano, un po' perché il terreno era piuttosto argilloso e non permetteva un buono sviluppo del tubero. Un po' di colpa però, era anche mia che gli portavo sempre il seme di Bintje, una varietà poco produttiva e poco adatta alla pianura, ma la cui pasta gialla è particolarmente soda e gustosa, le migliori per la frittura. In verità gli portavo anche un po' di Kennebec a pasta bianca, molto più adatte per purée e le dimensioni di quelle lo soddisfacevano. Andò avanti fin verso gli ottanta anni e quando smise, ne fece quasi una malattia, rimpiangendo continuamente i suoi bei pomodori rossi grossi, gonfi e maturi che erano la sua passione e con cui faceva, assieme alla mia mamma, bottiglie e bottiglie di conserva, imbottita di una famigerata polverina (credo salicicato) conservante, che comunque non ci ha mai ucciso, considerato che i conservanti sono comunque molto meno pericolosi dei composti che si generano quando non li si usano. Datemi retta, tenetivi alla larga da quelle etichette che recitano Non contiene conservanti, anche se purtroppo ormai trovate solo più quelle. Usava dei pomodori grossi, tipo cuore di bue, certo inadatti per la passata, ma già allora il San Marzano era praticamente scomparso per il virus del mosaico e il miglioramento OGM che lo avrebbe salvato, è stato subito impedito dalla idiozia della "saggezza" popolare ben manovrata. Possiamo concludere che il vero valore di quell'orto fosse la soddisfazione psicologica del coltivarlo ed il beneficio proveniente dall'attività fisica connessa, non ci sono dubbi. 

Col passare del tempo ci si è aggiunta la malinconia per l'affetto con cui mi erano date quelle verdure e la convinzione (certamente falsa) dei meravigliosi sapori e profumi perduti che avevano, frutto solo della fantasia e del rimpianto degli anni passati e che non possono tornare. Lo so, c'è una sacco di gente oggi che confonde tutto questo con l'agricoltura, quella attività economica che mantiene il mondo. Certo non sono agricoltori, ma impiegati o altro, lontanissimi dalla realtà produttiva, che sognano un'Arcadia che non è mai esistita, un mondo passato, dove regnava la cattiva qualità, la mancanza di igiene alimentare, la truffa estesissima e facile da fare non esistendo confezionamento e controlli, oggi assai accurati checché se ne pensi. Ma questo in fondo non è importante, c'è spazio per tutti, conta molto di più che la gente creda in qualche cosa, ancorché fasullo, soprattutto per chi su queste cose ci campa. Fa bene alla mente rimpiangere quei prodotti meravigliosi saporiti e profumatissimi (quando invece erano per metà marci e di varietà così scadenti che sono state quasi tutte abbandonate), stiamo meglio pensandoci e su questo si fonda tutta la fuffa del biologico e del c'era una volta, straordinaria operazione di marketing su cui si sono buttate proprio quelle multinazionali che le stesse folle osannanti, vituperano. Ma in fondo va benissimo così, è molto più importante appagare il cuore che l'intelletto e il mondo va avanti benissimo lo stesso. Certo che però, pensandoci bene, quei pomodori di mio papà erano davvero senza paragoni, altro che quelle porcherie del supermercato che chissà cosa c'è dentro. 


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sabato 26 ottobre 2013

Rù.


Spesso nella lingua cinese gli ideogrammi più semplici sono anche quelli maggiormente plastici, nel senso che si adattano ad entrare nelle combinazioni più varie per formare significati anche molti diversi tra di loro. E' il caso ad esempio per Rù - 入, che, rappresentando la stilizzazione delle radici di un grande albero che penetrano nel terreno significa appunto Entrare. Non va confuso però con quello molto simile: Rén - 人, che significa Uomo. Esaminando le molte combinazioni di parole bisillabiche che utilizzano Rù, troviamo quelle molto intuitive (e utili da conoscere) come quella che si ottiene unendo il segno di Bocca: 入口 - rù kǒu - Entrata, ingresso, un'insegna che troverete dappertutto, dalle stazioni agli aeroporti. Accoppiato a Porta: 入门 - rù mén, significa Superare la soglia, entrare in casa, considerando che sulle porte delle case cinesi c'è sempre una barriera, un gradino da superare a simboleggiare che per entrare in intimità con chi ci abita, devi fare un piccolo sforzo, devi metterci un po' di volontà. Ma l'espressione si è ormai traslata anche in un significato meno letterale, infatti si usa per i neofiti nel senso di Imparare i primi rudimenti, iscriversi al primo corso, insomma varcare la soglia di una nuova conoscenza. 

Una parola molto moderna si ottiene aggiungendo al nostro Rù il carattere Shí (Ora, adesso) ottenendo: 入时 - rù shí,  Essere alla moda, infatti chi riesce a penetrare nel momento presente, è attuale e uniformato ai dettami del momento. E ancora, con il carattere di Orecchio, si ottiene questo delizioso: 入耳 - rù 'ěr, che significa Piacevole, delizioso a sentirsi, insomma quello che facciamo entrare con piacere nell'orecchio. Parallelamente con uno dei segni usati oggi per Occhio abbiamo 入眼 - rù yǎn, Piacevole a vedersi. Il carattere entra anche in altri ideogrammi complessi come 汆 - cuān, in cui Entrare viene posto sopra il segno di Acqua per esprimere il concetto di Cuocere in fretta nell'acqua bollente mentre aggiungendo il carattere di Figlio (metodo usato di norma per identificare tutti gli strumenti che servono per fare qualche cosa di specifico) si ottiene:   汆 子 - cuān zǐ, un pentolino specifico usato in cucina per fare bollire in fretta l'acqua. E si sa che i cinesi hanno sempre fretta. Vi lascerei con 国民收入 -  guó mín shōu rù, letteralmente: Le entrate prodotte dal popolo della nazione, il PIL insomma, che è sempre una cosa di attualità, tanto per far vedere che avete studiato.


Refoli spiranti da: E. Fazzioli - Caratteri cinesi - Ed. Mondadori

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venerdì 25 ottobre 2013

Haiku urbano.



Castagne calde.
Scottano già. Dal fuoco,
chi le toglierà?



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Vena poetica.
I fiumi non ritornano.
Caravanserraglio. 
Haiku
Grigio nebbia.

giovedì 24 ottobre 2013

La colpa è sempre degli altri.

Colline - Ukraina - Novembre 1993

Le betulle dei boschi che coprivano tutte le colline attorno alla città avevano una corteccia bianchissima. Se la toccavi, sfiorandola con leggerezza, si sfogliava subito in un velo sottilissimo che pareva carta, quasi trasparente, lieve e leggera che il vento da nord si portava subito via lontano. La fabbrica era giù nella valle, oltre la periferia grigia della città grigio sporco, che quasi non si vedeva nella neve di novembre, quella subito sporca che non riesce a coprire completamente il fango delle piogge autunnali. Enorme, lunghissima lungo la strada diritta che andava verso Ivanofrankovsk. I capannoni si susseguivano gli uni agli altri con le pareti esterne più o meno rovinate, le profilature metalliche, alcune non finite, rivolte verso l'alto e già rugginose, i mucchi di macerie che davano un senso di abbandono. Più lontano dalla strada, un gruppo di ciminiere, solo due delle quali emettevano un fumo bianco a sprazzi, quasi un singhiozzo di attività. Poca gente in giro, che si muoveva qua e là come se cercasse di far vedere agli altri che aveva qualche cosa da fare, i più senza neanche quella voglia. Tutti cercavano di mettersi al riparo da qualche parte, imbucati in qualche ufficio degradato e polveroso a fumare sigarette di basso costo. I magazzini in fondo avevano le grandi porte aperte e vi intravedevi un vuoto devastante. 

La palazzina degli uffici, troneggiava su un piccolo piazzale, sbarrato a sinistra dal grande tabellone con le fotografie degli impiegati e degli operai del mese, premiati per la loro efficienza sul lavoro, ma nessuno la aggiornava più da tempo e anche la grande scritta orgogliosa, uno slogan sulla produttività proverbiale del gruppo, era scolorita e un paio di parole non erano ormai più leggibili, anche se il senso pomposo si capiva ancora. Davanti, non sostava alcuna macchina e la porta a vetri, che era anche l'unico accesso alla costruzione, era aperta con un'anta bloccata a causa di un cardine che aveva ceduto e che nessuno pensava di riparare. Per fortuna la doppia porta dell'atrio si riusciva a chiudere alla meglio, evitando che il freddo esterno che annunciava l'inverno imminente invadesse l'ampio ingresso, congelando la grassa ragazza che stava seduta davanti al bancone mentre si limava con attenzione le unghie. L'ufficio del direttore era un grande salone al primo piano, preceduto da una stanza ricolma di segretarie bellocce con camicette di pizzo o maglioncini di angora cinese bianchi, tutte intente a telefonare a casa o a stirarsi pigramente. Una stava ritta sulla sedia dallo schienale sbrecciato, con gli occhi persi  nel vuoto, forse in attesa di essere chiamata. Nel suo grande ufficio con una lunga scrivania a T e due divani in similpelle dai braccioli che presentavano larghi tagli da cui fuoriuscivano gnocchi di spugna giallastra, Valentin Ivanovic Kolienko, se ne stava appollaiato sulla vecchia poltrona come un orso sornione appena uscito dal letargo, in attesa di qualche cosa che cascasse dal cielo. 

Il testone ricoperto da una spessa e disordinata zazzera sale e pepe, che quasi gli copriva gli occhietti porcini semichiusi, dondolava lentamente quando parlava con il suo interlocutore. Finiva sempre le frasi con un sospeso, come se avesse voluto dire di più, ma si sa... La storia era sempre la stessa, più o meno, il grande passato della fabbrica, un tempo vanto di tutta l'Unione Sovietica, le produzioni sofisticatissime, roba di interesse militare, tutto segretissimo e qui abbassava un po' la testa e la voce, come se temesse la presenza di qualche spia nelle vicinanze e poi uno sguardo sfuggente verso l'alto, eh, non è che si potesse dire tutto... Le grandi potenzialità del territorio che conteneva sotto i piedi tutta la tavola di Mendelejev (frase ormai sentita mille volte in mille altre fabbriche in rovina) e poi l'elenco delle recriminazioni, tutta quella gente al centro nelle posizioni decisionali, che avevano mandato tutto alla malora, il complotto internazionale che voleva indebolire l'URSS, gli speculatori che una volta sarebbero stati fucilati sul posto e come si stava bene un tempo quando le cose erano chiare e ognuno aveva il suo compito, c'era il rublo forte con cui ti davano quasi due dollari mentre adesso, a causa dell'incapacità di chi governava e dei nemici avvoltoi, ce ne volevano 35.000 per un solo dollaro. Ma sarebbe venuto il giorno in cui le cose si sarebbero rivoltate e gli Americanzy avrebbero dovuto dare 10 dollari per avere un rublo, perché questo era il giusto cambio. Poi si veniva ad illustrare le straordinarie opportunità di investimento che l'ospite poteva avere a disposizione, cose da fare e da produrre, un mercato praticamente vergine da conquistare. 

Naturalmente lui, attraverso un suo socio, che stava al suo fianco ammiccando, attraverso un ufficio esterno avrebbe potuto essere di grande aiuto spianando la gran massa di intoppi burocratici che qualunque straniero avrebbe inevitabilmente incontrato nell'impresa. Al termine della chiacchierata che generalmente coincideva con la fine della o delle bottiglie di vodka  che erano state esposte sul tavolino davanti ai divani, arrivava puntuale la confessione che lì di soldi non c'era neanche l'ombra e che tutto l'impegno finanziario doveva essere esterno. Così gli ospiti salutavano e se ne andavano con grandi promesse di esaminare il progetto che tutti sapevano già morto prima di nascere. Anja, quella bionda con i capelli tirati su, li accompagnava alla porta con viso inespressivo, poi tornava a sbarazzare il tavolo dalle bottiglie vuote e dai bicchieri sporchi. Che vita! Niente che girasse per il giusto verso e quei farabutti che se ne andavano via sulle loro Merzedès e BeEmVé e lui non aveva neanche più la dotazione della Zigulì scassata della fabbrica e intanto gli operai reclamavano aumenti. Valentin stava per un po'sprofondato nella poltrona centrale del salotto con lo sguardo cupo e la piega della bocca un po' storta verso il basso, con la sigaretta che gli pendeva come per cadere da un momento all'altro. Guardava Anja che chinata in avanti con la gonna stretta finiva di pulire il tavolo, poi valutava con compiacimento le due chiappe morbide che si allontanavano ancheggiando verso la stanza delle segretarie. Ma sì, avrebbe convocato lei tra un'oretta, nella stanza dietro l'ufficio, dove  aveva fatto sistemare un grande letto con i cuscini nuovi e il copriletto rosa coi bordi di tulle.


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mercoledì 23 ottobre 2013

L'ultimo campo di mais.



Sento profumo della zuppa di ceci che mi faceva la mia mamma. E' quasi novembre. Sento nell'aria quell'umidità spessa che che c'è attorno ai campi di mais quasi secchi, quelli che non hanno ancora trebbiato, stocchi a volte duri, altre fragili, isolati in mezzo alla campagna scura dei campi ormai scoperti, pronti alla nuova semina o o già incubatori di nuova vita. Loro sembrano dimenticati dal contadino, in altre cose preso; lasciati lì a seccare completamente, a morir soli. Se passi loro accanto, senti un innaturale connubio tra secco e umido. Un odor di muffe che stan lì ad aspettare il loro turno prima di prender possesso di tutti quegli organismi che stanno terminando la vita, indeboliti, corrosi, con le parti più importanti ormai vizze, incartapecorite, insensibili alla brezza. Quando un refolo più forte le spinge le une contro le altre avverti un ciangolio secco, come di legnetti che si frangono, foglie sfinite, senza linfa quasi prone, arresesi al tempo che è arrivato alla fine; brattee spesse un poco aperte in alto, boccheggianti in un tentativo di lasciare andare qualche seme, in un istinto di propagazione impossibile per via naturale. Le barbe ormai seccate, quasi nere, già morte da tempo si sbriciolano al tocco, lascian spazio all'introdursi di nuova vita che non aspettava che questo momento per infilarsi, scavando gallerie protettive nel ventre dell'agonizzante, diventato ricovero solido, ambìto. 

Tutto è pronto per l'assalto saprofitico di una natura ferina, dove ogni vivente sopravvive e si propaga solo a spesa di altri viventi, per essere poi a suo tempo, a sua volta, sopraffatto da nuovi e più feroci predatori. Il campo di mais sta lì, quadrato, denso e fitto come un corpo solido, una barriera invalicabile in cui tu non puoi penetrare, a meno che tu non sia viscido, piccolo, invisibile o strisciante. Un blocco unico apparentemente forte che invece odora di materia in disfacimento, della corruzione che solo il tempo produce, di senso di morte. E' novembre, neanche la pioggia ha voglia di scendere decisa, sincera. L'aria però ti bagna, tanto è umida e si fa acqua per pervadere gli stocchi moribondi e aiutarli a morire. Chissà se ancora avevano desiderio di vivere, di rinnovare l'ansia di crescita, quando nella calda estate ergevano le foglie diritte e orgogliose verso l'alto a carpire l'abbraccio del sole, per crescere ancora, per sentire quel rigonfiarsi sereno dentro di sé, quella promessa di vita, che poi altri avrebbero sfruttato, ma che pareva ragione di esistere, motivo filosofico di essere vivo. Niente sembrava potesse fermare quello slancio potente di ferace affermazione di vita. Adesso eccole lì, le piante, gialle, deboli, alcune già irrimediabilmente spezzate, il pennacchio non più orgoglioso e ritto al cielo, ma spento e fiacco, privo ormai di pollini vivi; le spighe gonfie abbandonate sul fianco, il peso della loro grassezza pronto a spezzarle; il terreno ormai ricoperto di scorie morte in decomposizione. Che terribile metafora della vita.


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martedì 22 ottobre 2013

Soluzione semifinale.

Un Anonimo mi scrive un interessante commento sul post Razzismi e parole che merita senza dubbio un approfondimento quindi una Ris-post.

Dice l'Anonimo con una certa animosità anche se con qualche ragione di fondo:

Quando sento parlare anche da persone colte e con una certa apertura mentale di "razzismo grillino" non mi stupisco che milioni di Italiani votino ancora PD o PDL.Forse bisognerebbe togliere il diritto di voto a certi pensionati, che blaterano di cose di sinistra ma stringi stringi sono troppo attaccati alla loro ricca pensione da privilegiati. Non si può toccare un diritto acquisito, dicono, ed intanto i nipotini hanno acquisito il diritto alla disoccupazione, razzisti grillini che non sono altro.

Beh, caro Anomino, io non intendevo definire un concetto di razzismo grillino istituzionale, ma considerare il fatto che molti, anzi moltissimi razzisti votano Grillo, molti reduci leghisti in particolare, e lui, consapevole, si adegua. Se invece, la gente nei bar piangesse davvero per i morti di Lampedusa, lui sarebbe sulla battigia a sbracciare in mare starnazzando per salvare bambini e mostrarli alla folla entusiasta. Lui sa bene che la gente pensa: ma che si fottano e quindi "fa" il razzista a proposito. Il grillismo in fondo non ha ideologia, né razzista, né ecologista, né negazionista, né economica, semplicemente è un movimento creato da due furbacchioni che sfruttano qualunque tipologia di malcontento che sentono spirare nel popppolo e ci soffiano sopra, con buon successo naturalmente. Se non ci fossero loro due, la gente voterebbe Alba Dorata o Askatasuna o similia a seconda delle tendenze ideologiche. Sul fatto poi che i pensionati (e non solo certi) siano dei privilegiati, sono assolutamente d'accordo e infatti sulla loro ricca pensione si sta in pratica lavorando per raschiare il fondo di un barile che la mala politica, quella di promettere l'impossibile ed in alcuni casi, peggio ancora, di darlo creando l'indebitamento attuale, ha perseguito in questi anni. Purtroppo le nuove sirene suggeriscono che la soluzione sia di non ripagarlo il debito, non spiegando quanto peggiore ancora sia questa scelta. La tragica situazione della disoccupazione giovanile, è causata oltre che dalla crisi, soprattutto da una pessima classe di imprenditori (che preferiscono certo alla sfida e all'innovazione, la facile svalutazione e lo sfruttamento di chi lavora grazie alle leggi che glielo consentono), i pessimi sindacati che dei giovani se ne sono fregati alla grande, i pessimi politici, interessati solo alla loro affermazione (inclusi i nuovi movimenti, ancora più dei vecchi interessati a brandeggiare solo quando apparentemente fa crescere popolarità e consenso) e i pessimi italiani che comunque hanno continuato e continuano a votarli, premiando tutti meno le persone serie. In ogni caso eliminando per intero i pensionati (soluzione finale per alcuni risolutiva, auspicata e in parte praticata anche da Hitler e Pol Pot, con grande affinità ad alcune teorizzazioni grilline, che comunque farebbe diminuire pesantemente il PIL e contrarrebbe ancora pesantemente i posti di lavoro quantomeno delle badanti, ma non solo), non si avrebbe la creazione di alcun posto di lavoro in più, anzi e le schiere di giovani costretti a passare le giornate a prendere l'aperitivo digitando nervosamente sugli iphone (pagati quasi tutti dai loro nonni), dovrebbero rinunciare anche a questo piccolo se pur gradevole benefit. Grillo è lì che ci vuole portare, basta saperlo, poi ognuno è libero (magari ancora per poco) di decidere quello che gli pare. D'altra parte e proprio per questo motivo, si potrebbe estendere la proposta sulla privazione del diritto di voto, ma non solo a certi pensionati, diciamo magari all'intera collettività.

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Il falco e la colomba

lunedì 21 ottobre 2013

Persone serie e Brubru.

Bene, dopo l'apertura del libro dalla Annunziata, sono soddisfatto. Avevo visto giusto quando l'ho votato. Mario Monti è l'unica (o una delle pochissime) persone serie che siedono in quel cagnaio indecente. Rappresenta davvero quella figura di grand commis dello stato, interessato solo a lavorare per il suo paese in modo concreto, senza curarsi di fare e dire cose solo in riferimento al calcolo di quanti voti portano.Certo un modo di agire molto poco politico o furbo, se così lo vogliamo chiamare, che ti condannerà sempre ad una posizione marginale, perché la gente ama gli urli, gli strepiti e le promesse di fumo oppure la protesta a prescindere, quella che distrugge solo senza portare a nulla. Nessuno vuole accettare che se (attraverso la propria colpevole condiscendenza) si è nei guai e guai seri, solo tu attraverso i tuoi duri e pesanti sacrifici potrai tirartene fuori. Certo è più facile pensare che sarebbe giusto che i sacrifici li facessero gli altri al posto tuo, magari sarebbe anche corretto in qualche caso, ma alla fine questo non sarà mai possibile perché non funziona così; le castagne dal fuoco te le devi tirare fuori da solo. Quando un paese è economicamente al collasso (e non interessa di chi sia la colpa) la situazione può evolvere solo in due modi. O si distrugge tutto e si riparte da zero, cancellando completamente ogni ricchezza, con una guerra o più facilmente con una bella ipersvalutazione che cancella ogni debito o credito, in particolare quelli dello stato verso i cittadini (pensioni, titoli, stipendi) e questa è la cosa più tremenda che possa capitare oppure, se è ancora possibile recuperare, lentamente, con serietà e rigore, conquistando giorno per giorno quella credibilità che si deve avere per poter ottenere ancora credito, si riduce l'indebitamento generale e si risale a poco a poco, ma duramente la china. 

Il sacrificio, certamente doloroso, richiesto sarà comunque sempre e di molto inferiore al disastro della prima soluzione.  Monti ha sempre operato in questo senso, accettando di fare quello che era tassativamente necessario fare e che coloro che lo hanno incaricato non volevano fare in prima persona, pur sapendo bene che era necessario, timorosi di perdere consenso. Per maggiormente approfittare di ciò, lo hanno tutti sostenuto, pur rinnegando ufficialmente qualunque dolorosa decisione, criticandolo decisamente mentre faceva le cose di cui lo avevano incaricato e rinnegando ogni sera quello che di giorno avevano votato approvando e come ovvio gli elettori hanno premiato tutti gli infingardi mestatori di fango, i contestatori a prescindere, i furfanti confessi purché promettessero la luna, tranne lui. Lui ci ha creduto a che la serietà pagasse. Invece di scegliere la via più semplice dell'affermazione personale o le tante strade del mondo dove le sue competenze sarebbero state ben compensate, ha voluto spendersi per il proprio paese, ritenendo, e questa forse è la sua unica ingenuità, che la gente comprendessero la differenza tra serietà e demagogia, ma quando la gente diventa poppppolo, questa finezza non si coglie più, si chiede solo di ottenere dei risultati  immediati senza indicare chi li deve pagare, o meglio si crede che li debbano pagare "gli altri" senza capire che "gli altri" a cui si riferisce il tuo vicino che grida nella piazza, sei tu. Tranquillo Mario, nemo propheta in patria, lo dicono da due millenni, ma tu continua a rimanere al di qua della linea che divide gli uomini dai brubru. E adesso, prego, giù insulti, che mi faranno solo piacere.

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venerdì 18 ottobre 2013

Prendere il thé.


Dovremmo prendere l'abitudine di considerare come veri piaceri della vita, le cose piccole e apparentemente prive di grandi significati, ritrovandovi piacevolezze che aiutano a considerare il resto delle cose grandi più accettabili. Bere il thé è sempre stato considerato in oriente, come uno di questi piaceri. Porvi particolari attenzioni ne amplificherebbe di certo la portata. Dice Hsu Tse Shu, nel suo Cha su (il libro del thé) che i momenti propizi per bere il thé e goderne al massimo sono:

Quando cuore e mani sono inattivi.
Stanchi dopo aver letto poesie.
Quando i tuoi pensieri sono turbati.
Quando è terminata una canzone.
Chiuso in casa in un giorno di festa.
Suonando il Ch'in e guardando un bel quadro di paesaggi montani.
Impegnati in una profonda conversazione notturna.
Con amici simpatici e snelle concubine.
Ritornando da una visita agli amici.
Quando la giornata è chiara e la brezza mite.
In una giornata di pioggerella.
Su una barca dipinta vicino ad un ponticello di legno.
In un boschetto di alti bambù.
In un padiglione con fiori di loto, in una giornata estiva.
Dopo aver acceso gli incensi in un piccolo studio.
Finita la festa e partiti gli invitati.
Mentre i bambini sono a scuola.
In un tempio tranquillo e appartato.
Vicino a rocce e sorgenti.


Meditateci su.


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giovedì 17 ottobre 2013

Razzismi e parole.

Nella società umana c'è una dicotomia inconfessabile. Da una parte, il sentimento ufficiale, che in generale si accomuna a quello che viene inteso come giusto, corretto, morale in quel momento storico, dall'altra parte quello che pensa e dice veramente la gente e quindi di come si comporta di conseguenza, nella sua stragrande maggioranza. Vedi dunque una copertina, costituita dalle dichiarazioni pubbliche, da quanto viene scritto e divulgato sui media. Osservi politici che vanno a Lampedusa con le lacrime agli occhi, religiosi che ammoniscono e richiamano ai punti fondanti della loro fede, giornalisti che utilizzano il mestiere per evocare sentimenti e singhiozzi con pezzi strappalacrime, che illustrano casi singoli, meditando sui quali non si riesca a rimanere indifferenti. Poi sali sul tram, al bar allunghi l'orecchio per sentire i commenti ad un titolo di giornale mentre sorbisci un cappuccino, ti siedi nella sala d'attesa del medico della mutua o sulla poltrona del barbiere sfogliando una rivista e lì, improvvisamente senti il vero sentimento della gente. Oggi hai anche altri mezzi: fare scorrere Facebook  e leggere quanto scrivono le persone protette o meno da nickname di fantasia e che si sentono evidentemente liberi di dire o gridare quello che pensano davvero. Basta porgere orecchio a tutto questo con attenzione, ascoltare quanto si dice tra i banchi del mercato o nella coda agli sportelli della posta e senti cose che farebbero rabbrividire qualunque Essere Umano. 

Ho letto e udito cose sul ministro Kyenge che penseresti possibile solo nella Germania degli anni 40, opinioni sui barconi che passano il mare che avrebbero fatto arrossire di vergogna Goering, ma non da qualche noto borgheziosimile come ti aspetteresti, ma da decine di persone comuni che stimi e all'apparenza compassionevoli, che magari adottano un bambino, a distanza. Una serie di soluzioni finali che milioni di persone trovano del tutto razionali e praticabilissime. Impossibile dunque stupirsi che in Francia trionfi la Le Pen, Alba Dorata guadagni consensi, in Ungheria i neonazi siano al potere, in Austria, Norvegia, Olanda  e nella stessa Germania l'estremismo di destra sia ormai entrato nelle istituzioni. Da noi ufficialmente il fenomeno è meno visibile, spezzettato come appare tra diverse frange e sigle a destra e occultato, ma ben presente nel calderone grillino. Come spiegare questo fatto razionalmente inspiegabile? Io, essendo tuttologo, ho una mia teoria naturalmente. L'uomo è un essere solo apparentemente razionale, che di fronte anche solo alla discussione di un problema, rifiuta di tentare un'analisi asettica che cerchi di approfondirne le cause, attraverso numeri reali e fatti, più che sensazioni di pelle, al fine di cercarne possibili soluzioni, se ce ne sono, naturalmente. 

La razionalità costringerebbe a controllare se lo stesso problema, anche in altre forme si è presentato altrove e in altro tempo per esaminarne le conseguenze e trarne utile insegnamento a non compiere gli stessi errori. Di norma non si riesce ad accettare che nessun fenomeno è solo buono o cattivo, ma ognuno presenta in sé aspetti contrastanti e che quantomeno, bisognerebbe tentare di massimizzare gli uni e minimizzare gli altri; inoltre si tende a voler ignorare se questo è comunque inevitabile e bisogna in qualche modo affrontarlo. Non si accetta che ogni mossa anche apparentemente funzionale e ottima, provochi comunque una controreazione da altra parte e che nella valutazione complessiva, anche questo dovrebbe essere considerato prima di agire. Io credo che questo dipenda dal fatto che nell'uomo, la selezione naturale abbia generato nel profondo della sua psiche una parte di irrazionalità, aggressiva e furiosa, egoistica e feroce, che ha portato la specie a far trionfare quei gruppi che hanno via via eliminato tutti gli altri, con modi diversi nei millenni, facendo rimanere ed espandendole solo le culture più violente e spietate. I più deboli o accomodanti si sono via via estinti o sono stati assimilati. Limiti blandi a questa violenza sono stati posti dai sistemi legislativi solo per convenienza  e per consentire una funzionalità del sistema, ma ogni qual volta sia possibile questi confini vengono travolti e viene data via libera allo sfogo dell'istinto del più forte. 

Questo gene maligno (che, per carità, ha consentito la sopravvivenza della specie) alberga in ognuno di noi, a volte è lì bello in vista, orgoglioso e becero, altre volte è nascosto in fondo al cuore, anzi a tutta prima pare che non ci sia affatto, soffocato dall'educazione, dall'intelligenza, dalla convivenza civile, dalla com-passione. E' molto spesso dormiente o in sonno come dicono i massoni, in particolare nelle situazioni di benessere o quando la sensazione comune è che le cose vadano bene e che le situazioni siano in miglioramento. Allora tutto è sopito, ognuno si sente buono e comprensivo e disposto all'aiuto generale. Ma basta poco a far girare il vento, basta che cominci a levarsi il senso che qualche cosa, anche poco, ti viene tolto (sempre ingiustamente, rispetto ai meriti, è certo), basta che la sensazione che le cose stanno peggiorando e che prevalga il pessimismo ed ecco che, come in un meccanismo ad orologeria, scatta un click interno e la bestia si risveglia, l'odio si rinfocola, comincia la ricerca del qualcuno da accusare delle colpe di quanto sta avvenendo, meglio se come categoria che come individuo singolo, verso il quale un pur minimo senso si pietà e di vergogna rimane. E allora dai libero sfogo all'animale, dapprima quando ti senti protetto dall'anonimato o dal gruppo o anche soltanto dalla distanza o dalla situazione. 

Chi sta dentro un'auto in coda, dice all'indirizzo degli altri automobilisti cose che difficilmente ripeterebbe a piedi vis à vis. In una riunione di condominio vengono urlate cose inimmaginabili tra vicini di casa che la sera prima si erano prestati il sale. Leggete cosa scrive la gente su Facebook e capirete tanto del mondo che ci circonda. Come ci si può stupire dunque se poi in qualche parte del mondo sia accaduto che un ortodosso, si sia alzato una mattina è abbia trucidato la famiglia islamica sua vicina da trenta anni, che folle di indù abbiano sgozzato migliaia di sikh con cui convivevano da secoli, che gruppi di islamici ammazzino cristiani nelle chiese in cui mandavano a scuola anche i loro figli. Alla fine è lì che si arriva sempre. Non c'è scampo. L'odio verso l'altro, che non appartiene al nostro clan, che è diverso, conduce il gioco. La supremazia della nostra tribù (o razza, è la stessa cosa) è l'unica cosa che conta, di certo assolutamente disconosciuta nelle parole. Se volete individuare con facilità il razzista più bieco e determinato, basta che controlliate se nei suoi discorsi include sempre una premessa del tipo, lontana da me ogni forma di razzismo che detesto e combatto, allora potete essere certi che siete alla presenza di uno di quelli in cui quel gene maledetto, che è in tutti noi, sta uscendo allo scoperto per prendere definitivamente il sopravvento. E mi raccomando, non sto dando un giudizio, constato semplicemente una situazione e ho paura.


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Il falco e la colomba

mercoledì 16 ottobre 2013

Xiù wài huì zhōng.


Abbiamo visto come spesso culture all'apparenza lontanissime nello spazio e nelle concezioni di base, abbiano punti in comune e valutazioni dei valori di fondo, non troppo dissimili. Per rimarcare questo assioma, oggi voglio portare la vostra attenzione su un modo di dire molto cinese, ma utilizzato solo al femminile. Questa frase di quattro caratteri è usata spesso come complimento nei riguardi di qualche ragazza che stia particolarmente a cuore. Si tratta di 秀外慧中, che si traduce molto letteralmente: Bella fuori e intelligente dentro. Un apprezzamento fisico ed intellettuale che dovrebbe essere molto utile a vellicare l'ego nascosto della prescelta. Infatti contraddicendo quell'adagio popolare moderno che suggeriva: Ad una donna intelligente, dì che è bella, ad una bella dì che è intelligente, se non sai cosa dire, dille che è dimagrita che sarà comunque contenta, il confermare ad una persona che è contemporaneamente tutte e due le cose non può che dare il massimo aiuto all'autostima. 

Mi pare comunque che il concetto trasposto sull'individuo in generale, fosse già ben presente nella nostra cultura classica, che fin dai tempi di Alessandro ha imposto la categoria del Καλός και αγαθός, dell'eroe che per essere tale, deve allo stesso tempo apparire bello e intelligente (o di grande dirittura morale, valori che a quel tempo coincidevano; è solo da noi che nell'ultimo ventennio questo aspetto è diventato un disvalore, mentre si apprezza invece l'essere un corruttore, un donnaiolo, un furbacchione, purché ricco, cercando però sempre di annullare gli aspetti fisici giudicati deteriori, come la calvizie, l'età, la scarsa altezza). Tutto questo ha impregnato considerevolmente la cultura occidentale fino ai nostri giorni, imponendo il fatto che l'aspetto fisico porti con sé anche le qualità interiori.

Pochi gli spazi destinati ai brutti, ai malfatti, ai grassi, tutti visti come comunque portatori anche di qualche tara interiore che aggrava la loro diversità. Il fatto poi di voler attribuire alle portatrici femmine di bellezza anche una accessoria patente di stupidità non è altro che una rivalsa maschilista particolarmente forte in tutte le culture, specialmente quelle occidentali, vedi le barzellette sulle bionde che trionfano negli Stati Uniti, come da noi quelle sui carabinieri o in Russia quelle sugli abitanti della Chukotka. Così i cinesi hanno voluto con questa espressione, rivolta tipicamente al genere femminile, rimarcare l'eccezione della cosa. Tu non sei come le altre ma, sei contemporaneamente un unicum, un capriccio della natura, una perla rara bella e intelligente al tempo stesso. Se avete qualche amica cinese, non mancate di dirglielo, mi raccomando, ne rimarrà estasiata e mi ringrazierete.


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martedì 15 ottobre 2013

International Kendo Trophy City of Alessandria 2013.

Alessandria - Coppa internazionale di Kendo 2013 - Finali
Il kendo (la via della spada) è una attività (o se volete chiamarla in altro modo, sport, via spirituale) di straordinaria bellezza. Poche sono le cose che accomunano esercizio fisico, concentrazione mentale, ricerca di un benessere ed equilibrio come questa. La fatica la senti subito, appena entri in un palazzetto o in una palestra dove si stanno svolgendo gare o anche una semplice seduta di allenamento. E' un odore di sudore sano che certifica le energie spese, che vivifica la vitalità interna degli atleti, dei praticanti e degli amatori. Poi è uno sport dove non girano neanche un soldino bucato, ogni atleta si paga di tasca sua la trasferta e questo contribuisce notevolmente a mantenerne la correttezza e la serenità. Eppure c'erano ragazzi che venivano dalla Sicilia, da Roma, e da tutta Europa. Dà sfogo all'aggressività insita nell'uomo (e nella donna naturalmente) verso un avversario senza nome, coperto, quasi nascosto, che rappresenta in fondo l'archetipo delle forze del male, ciò che va vinto anche moralmente. Lo scopo finale del kendo è insegnarti a vincere le tue paure e la parte oscura che è dentro di te, attraverso la perfezione del movimento, dell'attitudine e della precisione. Se vi capita andate a vedere qualche gara di kendo. Troverete le gradinate vuote, non ci vanno nemmeno le fidanzate degli atleti a vederle, credo che sia un unicum tra gli sport, ma forse vi farete convincere da queste figure scure che davanti alle decisioni dell'arbitro, chinano il capo con rispetto, che ogni volta che subiscono una sconfitta, riconoscono il valore e la superiorità dell'avversario. 

Lo scorso weekend, qui da noi, si è svolta la 10° edizione dell'International , una occasione unica per vedere i migliori atleti d'Europa in una competizione davvero di altissimo livello. Alessandria è una città che ha dato e continua a dare moltissimo al kendo italiano, con un gran numero di campioni italiani e che continua a fornire diversi atleti alla nazionale, tanto per dire, che mica siamo solo dei mangianebbia rancorosi e falliti, qui tra Tanaro e Bormida. Due giorni di gare con oltre 200 atleti provenienti dalle più importanti palestre d'Italia e con squadre di Francia, Spagna, Inghilterra, Svizzera, Belgio, Ungheria, Polonia, comprendenti anche come sempre molti giapponesi e per la prima volta, due squadre di una Università coreana, con il fortissimo capitano Jin che ha vinto anche l'individuale di sabato, e che, come previsto, hanno fatto il vuoto, mostrando un kendo di una levatura assolutamente superiore. Come previsto si sono presi i primi due posti nella gara a squadre lasciando il terzo alla squadra di Parigi e al Kendo Club di Messina del fortissimo Giuseppe Giannetto, campione europeo 2013 ad aprile. Gli alessandrini, con il campione italiano Mandia, quest'anno  si sono fermati ai quarti. Medaglia d'oro nella gara femminile, Serena Ricciuti del Kendo CUS Verona. Un kendo comunque di levatura mondiale, come si è visto solo lo scorso anno al XV Campionato del mondo di Novara. Credo che gli spettatori me compreso, non superassero le dita di una mano, per fortuna le gradinate erano occupate dagli atleti stessi. 


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Yi Quan

lunedì 14 ottobre 2013

41

Quando stai con una persona da 41 anni, ti sembra normale averla accanto a te ogni giorno, a sostenerti quanto ti senti debole, a gioire assieme dei momenti belli, a fare apparire meno difficili quelli meno. Così rischi di dimenticare quale privilegio ti è capitato, in fondo casualmente, quando senza alcun merito specifico, sei stato scelto. Quando hai concluso un ciclo di studi o hai trovato un lavoro, in fondo hai sostenuto delle prove, sei stato investigato, hai dovuto dimostrare capacità, valore prima di essere accettato. Invece in questo caso no. Sei stato scelto per amore, non per merito e questo ingiustamente lo dai per scontato. In fondo una ricorrenza anche a questo deve servire. A renderti conto che quel giorno hai pescato il jolly, che è stato il più importante e fortunato della tua vita, quello che ti ha permesso di avere accanto una persona speciale che è più di una parte di te stesso. Così questo giorno bigio e svogliato come lo sono sempre i giorni di metà ottobre, esattamente uguale a quello di 41 anni fa, quando ho sentito la sua mano che si stringeva alla mia, per sempre, diventa bello improvvisamente, un senso di serenità ti avvolge e ti accorgi che l'unica cosa a cui tieni davvero è che ce ne siano tanti altri uguali a questo, ma tanti davvero. Grazie Tiziana e tanti auguri.

Ore 11:00 - Accidenti il lunedì ad Alessandria i fiorai sono chiusi! Che figura! meno male che lei ci ha pensato ieri e ha comprato la famosa torta di nocciole di Casalcermelli.

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Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!