|
Consulto |
|
Arathy |
|
Il bagno |
Così è arrivato anche l'ultimo giorno. Ma non è come di solito in questi casi, che almanacchi come sarebbe stato avere qualche altro giorno in più, che ti rammarichi di quante cose ti sei perso e che invece avresti potuto vedere, oppure che ti giri intorno nervosamente chiudendo meglio le valigie e hai solo voglia di arrivare a casa. No, questa volta è diverso. C'è qualcosa di morboso che ti attira ad uscire di nuovo, a rientrare nel gorgo di questa città, ad andare ancora verso il fiume, verso quelle gradinate con la gente che si avvia in processione per scenderne i gradini fino a raggiungere le acque e a cominciare le preghiere, verso quell'odore dolce, acre e pastoso, l'odore della morte che origina dai fumi sulla riva, che salgono al cielo e si spandono sula città come una cappa plumbea che la avvolge e questa volta senti che non si tratta di smog. Giri per i vicoli della città vecchia. Più la osservo e più me ne convinco. Al contrario di altre città, cresciute a dismisura che hanno mutato le loro skylines ricoprendosi di vetro, acciaio e cemento, che hanno rinnovato strutture, palazzi e anche templi, creandone di nuovi, moderni, lucenti, qui ogni cosa è rimasta uguale in un tempo immobile, congelato, che non ha intenzione discorrere. Questa città non è cambiata affatto da quella che ho lasciato 41 anni fa; le stesse facce, lo stesso terreno sconnesso, lo stesso scostarsi per lasciar passare le barelle di legno, gli stessi negozietti pieni di mille cose poverissime che pure hanno il loro compratore.
|
Sadhu |
|
Sul fiume |
Giri e giri nel labirinto delle stradine senza nome della città vecchia, strusciando sui muri scrostati di templi centenari dalle porte cadenti, abitate da vecchi sdentati che tendono la mano per darti l'opportunità di essere caritatevole verso qualcuno e dunque guadagnarti una rinascita migliore, capitando per caso davanti ad antiche edicole con simulacri corrosi e poi ancora ridipinti di divinità sconosciute eppure ancora da qualcuno onorate con un fiore giallo, una coroncina di tageti sfioriti, con una fiammella a bagno in una piccola lanterna di terracotta annerita. Di certo perdi il senso dell'orientamento e non sai più in quale direzione stai andando, anche se marci in automatico come se ci fosse una voce che ti chiama a scegliere per quale angolo svoltare. Tre donne dai sari vermigli con le bordure dorate, la dupatta avvolta alla meglio sul capo, si fermano a lasciarti passare, un gruppo di ragazzini ti corre al fianco e scompare in una porticina cadente, suoni smorzati dietro mura diroccate, mucchi di immondizie abbandonate da anni, non appena lo spazio crea un piccolo slargo con due vacche che masticano carta e ti guardano di sguincio con occhi umidi. Un tintinnare di cembali che arrivano da qualche tempio lontano. Poi, come fosse un percorso obbligato ed ogni tratto di questo labirinto mistico ti dovesse riportare allo stesso punto predestinato, ecco che dopo l'ultima quinta di una casa di pietra, si apre lo spazio lugubre del gath dei morti, meta obbligata anche se non voluta, tappa terminale di un percorso psicologico più che reale, fine ultimo di coloro che anelano a trovare il significato del proprio destino in questa città.
|
Preparazione delle palline |
Sei arrivato proprio su una sorta di balconata, una loggia di pietre nere affacciata sul fiume. Sotto di te si muovono fantasmi scuri, le nere figure che gestiscono la morte, la curano, la blandiscono forse essendone da essa stessa completamente avviluppati. Da una grossa chiatta si scaricano cataste di legna, combustibile necessario al rito quotidiano, mentre l'andirivieni continua tra il fumo che sale verso l'alto. A sinistra altri gath ancora semideserti che si stendono verso nord, nella bruma del mattino e chiamano a camminare in quella direzione. Qualcuno arriva dall'alto. Al Panchaganga gath, l'ultimo utile per i bagni sacri, gruppi di donne sono già sugli estremi gradini con i piedi nell'acqua pronte ad immergersi. Un vecchio sadhu malandato, coperto di cenere, è lì seduto immobile, lo sguardo fisso rivolto al fiume. Qualcuno gli ha lasciato davanti qualche cosa da mangiare. Davanti al tempio storto due file di fedeli ben vestiti confezionano senza sosta palline di burro chiarificato e farina da offrire alla divinità certamente, mentre pregano all'unisono a bassa voce. Un vecchio risale i gradini con un piccolo orcio tra le mani pieno dell'acqua benedetta, che si porterà a casa, custodendolo con cura. Il fiume adesso è pieno di barche cariche di pellegrini che attraversano il fiume verso la riva opposta, una lunga distesa di sabbia completamente priva di costruzioni.
|
Un sadhu |
E' quella parte del Gange destinata inevitabilmente ad essere preda delle acque quando queste, gonfiate dal monsone estivo cercheranno uno spazio dove allargare la presa; Sullo sfondo, lontanissimi, solo qualche cupola di templi lontani, la cui sagoma svanisce nella nebbiolina azzurro rosata del primo mattino. Un altro sadhu con un grande turbante multicolore, è immobile con lo sguardo abbassato verso terra. Intorno a lui un gruppo di donne ed un ragazzo, guidate da un vecchio lo guardano con aria interrogativa come aspettando l'oracolo o semplicemente un consiglio, una benedizione. Davanti a loro i fiori delle offerte, sul tappeto qualche piccola moneta, il prezzo della salvezza. Intorno cani gialli che dopo aver razzolato nelle immondizie e nei resti che le le acque del fiume non sono ancora riuscite a portare con sé, stanno sdraiati a terra, sfiniti anch'essi dall'inedia e dalla fame, davanti a bidoncini dall'aria nuova, di certo appena piazzati con una speranzosa scritta in inglese: Use me. Anche se è difficile staccarsi da questo luogo, risalgo la lunga gradinata, passando davanti al tempio storto, per la strettoia tra i bassorilievi di pietra, sgusciando via nella stradina che risale verso la città. Quasi scavalco un anziano dai capelli bianchissimi che un improvvisato barbiere con la testa avvolta da una sciarpa per difendersi dall'aria fredda del mattino, sta rasando con aria compunta. Risalgo i vicoli e poi ancora altri, certo che prima o poi troverò l'uscita da questo dedalo silenzioso e carico di misteriosi richiami.
|
Randagi |
Alla fine eccomi di nuovo nella piazza del mercato. La fila dietro le transenne, che il giorno prima sembrava destinata a non finire mai, è completamente scomparsa, la festa è finita ed ognuno è tornato alle proprie case felice di aver portato al sacro lingam la sua offerta. I venditori hanno ripreso vigore, il giorno avanza coi suoi rumori, gli odori di fritti e di pentoloni bollenti che preparano cibo per i tanti che di qui oggi passeranno. La vita deve continuare anche nella città della morte. Dobbiamo dunque lasciare per la seconda volta dopo tanti anni questa città; l'ultima di certo, per lo meno in questa vita. In albergo il nostro omino è già lì che aspetta. Anche qui dove il tempo non esiste, dove per molti non ha una importanza reale, per altri è invece una inderogabile certezza, una necessità escatologica che si traduce in date, orari, spazi da percorrere. L'aeroporto è una cosa assolutamente incongrua in questo luogo, parrebbe ai più un non senso assoluto in una situazione in cui si può soltanto ragionare di vite future, di metempsicosi, di reincarnazioni successive, di liberazione dalla ruota infinita, eppure c'è, esiste come sostanza e non accidente, come direbbe un Don Ferrante trasportato in un Oriente passato e tra le altre cose, non sarebbe neppure troppo lontano in termini chilometrici, ma bisogna fare i conti con il traffico di questa città e le ore che il nostro uomo si è preso per arrivarci, troppo frettolosamente giudicate come eccessive, in realtà sono appena sufficienti. Superata in uscita le porte della città di Dite, si ritorna nel nostro mondo, fatto di biglietti, di bagagli, checkin e posti da scegliere. Un cambio a Delhi e poi sei a casa.
|
Dal barbiere |
|
Verso il gath |
Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:
|
Venditrice di fiori |
|
Al tempio storto |
Nessun commento:
Posta un commento