lunedì 30 novembre 2020

Luoghi del cuore 95: Tra le radici del Ta Prohm

Ta Prohm - Siem Reap - Cambogia - aprile 2010

 Il 2010 fu un anno di svolta, dopo un periodo piuttosto statico dovuto ad esigenze familiari. Cominciai così per qualche anno a dedicarmi ad una sistematica esplorazione del sudest asiatico, che da sempre aveva costituito una mia grande passione, ma che per motivi vari non avevo mai potuto veramente indagare. Certamente quando ero giovane quella terra era decisamente off limit, un po' come oggi l'Africa sahariana o molta parte del medio oriente. Guerra e bombardamenti stavano devastando quel mondo e anche negli anni successivi tutta l'area presentava ancora notevoli difficoltà logistiche che per altro hanno contribuito a preservarne molti interessi antropologici che la successiva mondializzazione sta cancellando velocemente. Dunque casualmente cominciai dalla Cambogia, un paese che ancora si stava affacciando alle opportunità di sviluppo tumultuoso che avevano già coinvolto altre parti dell'Asia. In quel momento invece si poteva ormai girarla in lungo ed in largo senza problemi, ritrovando ancora una accettabile genuinità. Il paese era uscito da poco dalle vicende di una guerra civile durata anni, figlia del conflitto vietnamita e del successivo orrore degli khmeri rossi e si stava avviando alla ricostruzione con asiatica lentezza, se pur assediata dai golosi appetiti degli "amici" vicini e lontani, in famelica attesa di occasioni ghiotte, che già avevano cominciato a manifestarsi nell'operazione Sianukville. Ma la maggior parte del paese era terra quasi vergine per chi aveva voglia di sbattersi un po' a viverne la realtà. Così mi ero ritagliato cinque giorni da trascorrere da solo nell'area di Siem Reap, quella più interessante dal punto divista artistico, con una concentrazione di templi con pochi eguali al mondo, molti ormai ripuliti e ben agibili, altri ancora completamente avvolti dalla jungla che li avvolgeva in un mistico abbraccio. 

L'amico con cui mi ero accompagnato era impegnato in un altra parte del paese a fare cose buone, pozzi per villaggi sparsi tra le risaie, io ero così rimasto con la ghiotta possibilità di dedicarmi in solitaria ad un territorio entusiasmante. Era aprile, il periodo più caldo e secco dell'anno, sconsigliatissimo per il turista e per questo con una benedetta scarsissima presenza di visitatori. Approfittate sempre di questi periodi sconsigliati, i prezzi sono bassi e soprattutto non troverete quasi nessuno nei luoghi più interessanti e li potrete vedere con calma, spesso in assoluta solitudine, cosa che li rende molto affascinanti. Così mi aggirai nella vastissima zona archeologica passando da un tempio all'altro; avevo affittato un tuktuk per cinque giorni che mi veniva a prendere alle 5:30 al mattino, ora ancora fresca e mi scarrozzava per tutto il giorno sugli itinerari che mi ero costruito con attenzione per non perdere quasi nulla di quanto offriva il menù. Unica compagna oltre il tassista, una borsa frigo gigante piena di ghiaccio e bibite. La giornata era lunga e caldissima. Di tanto in tanto prendevo un pezzo di ghiaccio e me lo lasciavo colare dal collo sulla schiena. C'era almeno un chilometro di bosco fitto prima di raggiungere la bassa muraglia ed il Victory gate per uscire da Ankor Thom dove avevo passato quasi tutta la mattina. Attraversammo il lungo ponte e subito ai lati altri due complessi templari, uno in rovina, il Chau Say, l'altro perfettamente conservato, il Thommanom, due templi quasi gemelli, dove ti si poneva davanti il prima e il dopo, la bellezza dell'essere e la disgregazione del non essere. Quasi non sai se sia più attrattiva l'una o l'altra delle due condizioni, entrambe così perfette nella loro apparenza. 

Fuori di Angkor, i già pochi turisti si erano diradati drasticamente. Sembra che la fretta del mondo moderno vieti alla maggior parte delle persone di godere di tutto quello che c'è al di là dei muri principali, così, di norma, tutto questo viene trascurato. Che perdita! C'era solo una monaca dal cranio rasato nel Thommanom. Mi misi in un angolo a seguire il suo rituale silenzioso, una piccola puja di frutti, il ritmico movimento di qualche bastoncino di incenso; intorno il rumore della foresta in mezzo alla perfezione dell'arenaria rosata, dei terrazzini, degli stipiti diritti, delle guglie ornate, delle leggerissime tonnellate di pietra. Me ne staccai a fatica; ancora un paio di curve poi ecco l'immensa piramide del Ta Keo, dove la voglia di raggiungere il cielo si misura nella serie di terrazze sovrapposte, nell'infinito susseguirsi dei gradini per arrivare a dominare la jungla dall'alto, in una sorta di déjà vu mesoamericano, testimone della identità comune della immaginazione dell'uomo. Al di là, la jungla si infittiva, mentre il sole si faceva alto ed il caldo opprimente avrebbe consigliato il riposo. Ma dopo poco, da una stretta porta si apre la meraviglia delle meraviglie, il luogo forse più coinvolgente di tutti, un sogno di pietra avvolto dalla foresta. Il Ta Prohm, testimone di una simbologia unica ed eterna. La lotta continua dell'uomo e della natura che coesistono tentando inutilmente di sopraffarsi l'uno con l'altra, in una battaglia epocale da cui nessuno, per fortuna esce mai vincitore. Entri attraverso brecce tra i muri spessi e tutto sembra crollato, morto, distrutto. Le grandi pietre scure ammonticchiate giacciono al suolo scompostamente come spazzate via da una forza superiore che abbia voluto dimostrare la piccolezza del costruttore, la sua incapacità di realizzare qualche cosa che potesse resistere al tempo, ma subito dopo indovini cortili e recinti, passaggi e camere ancora in perfetto stato, ma mostruosamente avvolte da radici di alberi giganteschi che mai ti sembra di aver visto in natura, che in un abbraccio mortale avvincono la pietra come per tentare di stritolarla, tentacoli smisurati che soffocano i muri distorcendoli, penetrandoli con filamenti più sottili, malignamente. 

Le costruzioni, coperte di muschio verde, soffrono disperatamente nel tentativo di sottrarsi alla stretta, per tentare di respirare, di scrollarsi di dosso quel peso terribile; qualcuna ha ceduto ormai e giace abbattuta, vinta definitivamente, altre sembrano uscire vittoriose dalla morsa e si alzano ancora libere, mentre le grosse radici chiare corrono ondeggianti ai loro piedi, come messe in fuga. Non c'è luogo che abbia visto, dove questa lotta primordiale sia così avvincente e piena di fascino. Se ti siedi in qualche angolo solitario, vieni anche tu subito avvolto dai suoni della jungla, decine di uccelli diversi che cinguettano, sibilano, chiocciano richiamandosi in continuazione. Frullio d'ali sugli alberi più alti, poi un rincorrersi di piccole scimmie dalle fauci rosate, colori di farfalle che si posano leggere sulle pietre antiche. Tutto lo scenario era immobile attorno a te, ma nell'aria spessa, sotto l'afa opprimente, la sensazione era che tutto fosse in un pur lentissimo ma continuo movimento, che il terreno a poco a poco si sollevasse al protendersi infido delle nuove radici, che bramassero avvolgere, conquistare, sopraffare l'opera dell'uomo e questa che tentasse di resistere all'abbraccio mortale per formare una situazione di statica bellezza, di immagini da cui non si riuscisse più a staccarsi. Che gioia esserci stato e che fortuna esserci arrivato in questa stagione, quando caldo e fatica tengono lontano la folla, lasciandoti solo tra queste mura contorte a sentire il respiro della foresta. Ma alfine bisognava andare, camminando lentamente sotto gli alberi, con l'aria spessa che bruciava i polmoni. Davanti al bacino dello Sras Srang, un gruppo di capanne aspettava le poche persone che arrivavano. Una dà acqua fresca e riso. Anche la birra, scelta tra le lattine avvolte da pani di ghiaccio, era bella fresca. Mi abbandonai su un'amaca davanti all'enorme stagno artificiale. Lontano nell'acqua, gruppi di bambini giocavano nel fango basso, qualche pescatore tirava su le nasse. Gli occhi, stanchi di tanto splendore, si chiusero. Meno male che non c'erano zanzare.


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